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Aspettando Harry Lime

La locandina di "Il terzo uomo"

La locandina di “Il terzo uomo”

(Attenzione, contiene spoiler) Prendete un ottimo scrittore, Graham Greene, e fategli scrivere una sceneggiatura. Poi radunate un cast di prima grandezza, che comprenda attori del calibro di Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles e Trevor Howard. Dopodiché ingaggiate un grande direttore della fotografia, Robert Krasker, maestro del chiaroscuro che illumina le scene da par suo, e un talentuoso suonatore di cetra, Anton Karas, in grado di comporre una colonna sonora destinata ad entrare nell’immaginario collettivo. Infine affidate tutto questo ben di Dio a un regista capace e preparato, Carol Reed, che sa dove e come posizionare la macchina da presa e che conosce tutti i trucchi del mestiere. Se mettete insieme tutta questa bella gente, potete stare certi che otterrete qualcosa di grandioso. Nel 1949 le persone sopra citate lavorarono veramente tutte allo stesso film, e il risultato che ne scaturì fu “Il terzo uomo”, uno dei film più leggendari, citati e imitati di sempre, nonché uno dei rari casi in cui nel mondo del cinema la somma dei talenti coinvolti nella realizzazione di un film ha dato l’esito sperato. Nel cinema, infatti, non sempre uno più uno fa due, ma nel caso de “Il terzo uomo” sì, perché qui sia davanti che dietro la cinepresa c’era gente che sapeva fare il suo lavoro egregiamente e che si è impegnata a fondo per ottenere il massimo risultato possibile. C’è Joseph Cotten che interpreta uno squattrinato scrittore americano di modesti romanzi western che si improvvisa detective, Holly Martins; c’è Alida Valli (la quale nei titoli di testa viene citata solo con il cognome) che recita nei panni di un’affascinante e malinconica attrice teatrale cecoslovacca, Anna Schmidt; c’è Trevor Howard che ricopre il ruolo di un ostinato poliziotto inglese che dà la caccia ai criminali, il maggiore Calloway; e soprattutto c’è Orson Welles che presta il volto a un personaggio amorale e ambiguo giustamente entrato nel mito, Harry Lime, un cinico e spietato trafficante di penicillina che rappresenta il male in persona, che entra in scena solo a metà film ma che, nonostante compaia poco, finisce per diventare il protagonista assoluto e incontrastato della vicenda.

Orson Welles

Orson Welles

Anche quando non si vede, Harry è come se fosse sempre presente, dal momento che tutti parlano di lui: da Holly, il suo vecchio amico che giunge a Vienna dall’America per incontrarlo, ad Anna, la sua amante che dopo la sua morte si ritrova sola e con il cuore spezzato, passando per Calloway, che vorrebbe fargli pagare tutto il male che ha fatto e tutto il dolore che ha causato con il suo traffico illegale di penicillina sbattendolo in prigione e gettando via la chiave per sempre. Tutti parlano di Harry, dall’inizio alla fine del film. E’ lui il fulcro attorno al quale ruota tutta quanta la storia. Che sia vivo oppure morto, non importa: Harry è il centro di tutto. Lui, però, non si fa vedere, almeno nella prima parte. Si fa attendere come Godot, ma a differenza di quest’ultimo, che non arrivava mai, Harry, a un certo punto, arriva eccome. La sua entrata in scena è da antologia: dopo aver fatto credere agli altri di essere passato a miglior vita, più o meno a metà film lo vediamo comparire di notte nel buio dell’androne di un palazzo completamente vestito di nero, lui che sembrava fosse stato investito e ucciso da un’automobile e che era stato tumulato davanti agli occhi dei suoi amici, mentre un gatto gli fa le fusa e lui sorride sardonico. Un’apparizione folgorante, la sua, di quelle che lasciano il segno e che non si dimenticano più. Poi, però, dopo essere sbucato dal nulla come un fantasma, Harry sparisce di nuovo. Si nasconde nelle fogne come un topo, e in quel posto lurido e maleodorante, al termine di un lungo e spettacolare inseguimento, si compirà il suo amaro e tragico destino.

Alida Valli e Joseph Cotten

Alida Valli e Joseph Cotten

Insomma, dei quattro protagonisti, Harry Lime è quello che si vede di meno, ma è anche quello di cui si parla di più e che funge da filo conduttore tra i vari personaggi che popolano il film. Senza di lui, “Il terzo uomo” perderebbe molto del suo fascino. E’ banale e scontato dirlo, ma è la pura e semplice verità. Aveva ragione Alfred Hitchcock quando diceva che “più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”. Harry Lime è un cattivo coi fiocchi: malvagio, crudele e insensibile, la sua ombra minacciosa si allunga sinistra su tutta la pellicola. In una delle tante scene memorabili, mentre discute con Holly, Harry, con il suo tipico atteggiamento sprezzante, giustifica le sue azioni criminose con un monologo indimenticabile: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Welles è superlativo, e con la sua imponente e inquietante presenza domina il film in lungo e in largo, ma anche Cotten, Howard e la Valli sono eccellenti. Impeccabile la regia (magistrale l’uso del grandangolo), sontuosa la fotografia (per la quale Krasker vinse l’Oscar) e stupenda la colonna sonora (e pensare che Karas era alla sua prima esperienza come compositore di musica per film). E per ultimo, ma non per questo meno importante, il fascino decadente di Vienna, una città messa in ginocchio dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e divisa in quattro zone presidiate dai russi, dagli americani, dagli inglesi e dai francesi, che si rivela una location perfetta per ambientarvi una storia che parla di intrighi, delitti, traffici di medicinali e morti che ritornano. “Il terzo uomo” (premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes) è un classico intramontabile e imperdibile.

VOTO: 9/10

La morte corre sul fiume

La locandina di "Undertow"

La locandina di “Undertow”

(Attenzione, contiene spoiler) Due fratelli che scappano inseguiti da un uomo malvagio che vorrebbe far loro del male. Non l’abbiamo già visto in un altro film? Ma certo, direte voi, è, in estrema sintesi, la storia di “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton; ma, aggiungiamo noi, è anche quella di “Undertow” di David Gordon Green, che, per quanto incredibile possa essere, racconta una vicenda simile a quella del capolavoro di Laughton. Non si può dire che Green manchi di coraggio: qui, addirittura, non solo si è messo in testa di rifare un film che ha segnato la Storia del Cinema, ma ha anche avuto l’ardire di realizzarlo con uno stile che ricorda molto quello dell’inarrivabile Terrence Malick. E guarda caso, quest’ultimo figura nelle vesti di produttore di “Undertow”. Green vorrebbe diventare l’erede dell’autore texano, ma nonostante abbia girato pellicole di buon valore qualitativo, come “George Washington” e “Snow Angels”, deve ancora dimostrare di essere all’altezza del maestro. “Undertow”, comunque, sebbene sia imperfetto, è un film che intriga e che merita di essere visto. Comincia citando “La rabbia giovane” di sua maestà Malick e prosegue come una specie di rifacimento di “La morte corre sul fiume”. Chris Munn (Jamie Bell) è un adolescente innamorato di una sua coetanea, Lila (Kristen Stewart), ma il padre di lei non vede di buon occhio la loro relazione. Se lo si guarda senza sapere nulla della trama, all’inizio si potrebbe pensare che “Undertow” sia incentrato sull’amore impossibile tra i due giovani. E invece no, niente di più sbagliato. Green abbandona la storia d’amore tra Chris e Lila dopo pochi minuti e fa entrare in scena un personaggio, quello dello zio del ragazzo, Deel (Josh Lucas), che all’improvviso appare dal nulla portando scompiglio nella vita della famiglia del giovane. Deel è appena uscito di prigione e ha un conto in sospeso con suo fratello, John (Dermot Mulroney), padre di Chris. Il passato burrascoso dell’ex detenuto torna a galla e durante una lite Deel uccide John con il coltello di Chris. Invece di andare alla polizia, come farebbe quasi chiunque, Chris decide di scappare insieme al fratello minore, Tim (Devon Alan).

Devon Alan e Jamie Bell

Devon Alan e Jamie Bell

E questo è il difetto principale del film: la motivazione che spinge Chris alla fuga, infatti, non convince del tutto. In un caso del genere, la cosa più logica da fare, come appena detto, è quella di andare alla polizia e raccontare la verità, ma il ragazzo preferisce darsi alla fuga perché sull’arma del delitto ci sono le sue impronte digitali. E quelle dello zio, dove sono? Non sono anch’esse sul coltello con cui Deel ha ucciso John? E poi, cosa ancora più importante, Tim, con la sua testimonianza, avrebbe potuto scagionare Chris dall’accusa di omicidio. Per dimostrare l’innocenza del fratello maggiore, gli sarebbe bastato dire la verità. Quindi perché fuggire, non si sa nemmeno bene dove, invece di recarsi al commissariato per denunciare lo zio? D’accordo, può anche darsi che Chris, data la sua giovane età, sia stato preso dal panico; ma resta il fatto che la ragione che sta alla base della sua fuga non persuade pienamente, e guardando il film non si può fare a meno di pensare che Green e il suo cosceneggiatore, Joe Conway, abbiano commesso un piccolo errore nella fase di stesura del copione che in parte inficia l’esito complessivo. Sul film, poi, pesa maledettamente la somiglianza con il già citato “La morte corre sul fiume”. E allora perché merita di essere visto, “Undertow”? Semplice: perché, bisogna riconoscerlo, Green ha talento, soprattutto sul piano visivo (e qui una bella mano gliela dà il direttore della fotografia, Tim Orr, che illumina le scene con grande perizia), e poi perché usa il fermo immagine in modo sublime. E, ancora, il finale sospeso (non si capisce se Chris riesca a salvarsi oppure no), oltre ad essere girato con grande competenza, dimostra che Green è un regista dalle potenzialità notevoli, che però dovrebbe evitare di buttarsi via dirigendo film che non aggiungono nulla al suo curriculum come “Strafumati”.

VOTO: 7/10

 

Arthur e la follia della guerra

La locandina di "Per il re e per la patria"

La locandina di “Per il re e per la patria”

(Attenzione, contiene spoiler) Qual è il film antimilitarista più bello di tutti i tempi? “All’ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone, “La grande illusione” (1937) di Jean Renoir, “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick, “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) di David Lean, “L’arpa birmana” (1956) di Kon Ichikawa, “E Johnny prese il fucile” (1971) di Dalton Trumbo, “Il grande uno rosso” (1980) di Samuel Fuller, o “La sottile linea rossa” (1998) di Terrence Malick? Ognuno può scegliere quello che preferisce, ma nella rosa dei canditati al titolo di Miglior Film Antimilitarista della Storia del Cinema non può di certo mancare “Per il re e per la patria” (1964) di Joseph Losey. Basandosi su un testo teatrale di John Wilson, “Hamp”, il cui adattamento cinematografico è stato curato da Evan Jones, il regista americano trapiantato in Inghilterra per sfuggire al maccartismo racconta la vicenda di un giovane soldato britannico, il ventitreenne Arthur James Hamp, che nel 1917, a Passchendaele, durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver combattuto per tre anni, rischia di essere fucilato per diserzione. Arthur, visibilmente scosso, dice che voleva andare il più lontano possibile dai cannoni; l’ufficiale incaricato di difenderlo nel processo, il capitano Charles Hargreaves, prima lo tratta con sufficienza e disprezzo (nel corso del loro colloquio gli ricorda che quando si parla con un ufficiale è necessario stare sull’attenti), poi inizia a provare pietà per lui e decide di impegnarsi per scagionarlo. Hargreaves sostiene che quando Arthur si è allontanato dal suo reparto non si rendeva perfettamente conto di quello che stava facendo perché aveva subito uno shock da esplosione: “L’imputato, quando ha compiuto gli atti per i quali è processato, non era responsabile delle sue azioni. Questa corte è responsabile delle sue azioni, ha pieno dominio di se stessa, questa corte sa benissimo quello che fa, questa corte ha dunque piena facoltà di scelta. Il soldato Hamp non è un bugiardo, non ha la parola né la risposta facile, ha un’onestà disarmante che fa di lui un pessimo testimone di se stesso.

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Avrebbe potuto spararsi in una gamba e rischiare non più di qualche mese di prigione. Ha anche detto di averci pensato, ma non lo fece, restò. Un disertore che ha piena coscienza di quello che fa scappa via soltanto per salvare la pelle e lascia i suoi compagni a combattere e a morire per lui, ma quest’uomo non è un disertore, è un volontario. Vero che si arruolò perché fu sfidato a farlo dalla moglie e dalla suocera, ma non importa, si arruolò. E’ stato al fronte per tre anni, più a lungo, se mi è permesso dirlo, di alcuni di noi. Le ha viste tutte. Un uomo non può sopportarne tante, tanto sangue, tanto sudiciume, tanti morti. In quella buca di granata credette di annegare nel fango e che la sua ora fosse venuta. Dopo di allora non è stato più responsabile delle sue azioni, non ha saputo più discernere tra quello che doveva e non doveva fare. Dentro di lui non sentì che un impulso, l’impulso di camminare, di andare a casa, di andare lontano dai cannoni. La loro voce per noi è diventata un fatto abituale, tanto che ormai non ci chiediamo quasi più perché sparino. Siamo da tanto in guerra, siamo così abbruttiti da averlo dimenticato; ma non lottiamo forse per salvaguardare un principio di onestà, per un principio di giustizia, per dare a tutti i tribunali come questo il diritto di decidere? Ricordo a questa corte che se non si rende giustizia anche a un uomo solo, allora tutti gli altri muoiono invano”. L’accorata arringa del capitano, però, non può ribaltare una sentenza che sembra già scritta: Arthur, infatti, è riconosciuto colpevole di diserzione e condannato a morte mediante fucilazione.

Dirk Bogarde e Peter Copley

Dirk Bogarde e Peter Copley

Per provare quanto sia folle, inutile e insensata la guerra, Losey ricorre a una messa in scena cupa e claustrofobica in cui gli spazi chiusi amplificano il disagio fisico e mentale dei militari costretti a combattere come degli automi. Se uno di loro mostra segni di cedimento psichico, i dottori pensano che sia un pusillanime e che stia fingendo per essere esentato dai suoi doveri di soldato, cosa che succede al povero Arthur, un umile calzolaio arruolatosi volontario “per il re e per la patria” (così dice lui stesso al capitano quando questi gli chiede per quale motivo abbia deciso di entrare nell’esercito) e per dimostrare alla moglie e alla suocera di essere abbastanza coraggioso da partire per il fronte, che finisce per pagare con la vita la sua innocente camminata per trovare un po’ di pace e tranquillità lontano dagli orrori del conflitto (notevole il lavoro sul sonoro, con i cannoni che rimbombano sullo sfondo per tutto il film). “Siamo degli assassini” dice Hargreaves, che con queste parole esprime al colonnello tutto il suo disgusto per la sentenza: “Fucilate un povero imbecille perché ha fatto una passeggiata. Questo e niente altro. Tecnicamente ha disertato, ma in realtà è stata solo una passeggiata. E lei lo sa bene, vero?”. Arthur viene punito oltre misura in base all’aberrante logica del “punirne uno per educarne cento”. Secondo coloro che occupano i piani alti della gerarchia militare è lecito giustiziare un soldato che ha fatto una semplice camminata allo scopo di dissuadere i suoi commilitoni dal fare altrettanto.

Una scena del film

Una scena del film

La scena della fucilazione è sconvolgente: Arthur non viene ucciso dal plotone di esecuzione, ma da colui che aveva cercato in tutti i modi di sottrarlo alla pena di morte, ossia il capitano Hargreaves, che gli spara un colpo di pistola in bocca ponendo così fine a una storia tragica e assurda allo stesso tempo. Avvalendosi della splendida fotografia di Denys N. Coop, che immerge le scene nell’oscurità di un bianco e nero buio come la notte, e delle fondamentali scenografie di Richard MacDonald e Peter Mullins, che ricreano in studio la squallida trincea, trasformata in un acquitrino dalla pioggia che cade incessante, in cui si svolge l’azione, Losey, senza un briciolo di retorica e senza scivolare mai nel didascalico, grazie a una narrazione stringata e a un ritmo che non conosce pause, attraverso calibrati movimenti di macchina e intensi primi piani che scrutano gli abissi dell’anima umana, lancia un grido contro la guerra, che non produce vincitori ma solo vinti (“Tutti abbiamo perso” afferma Hargreaves), e realizza un’opera di straordinaria fattura, allucinante e coinvolgente, tesa e appassionante, impreziosita da un cast eccellente, in cui spiccano le encomiabili prove di Tom Courtenay (Arthur James Hamp) e Dirk Bogarde (Charles Hargreaves). Nel 1964 “Per il re e per la patria” passò in Concorso al Festival di Venezia, ma la giuria, presieduta da Mario Soldati, assegnò il Leone d’oro a “Il deserto rosso” (1964) di Michelangelo Antonioni, un film bello ma inferiore a quello di Losey. Tom Courtenay venne premiato con la Coppa Volpi per la Miglior Interpretazione Maschile, ma anche Dirk Bogarde avrebbe meritato altrettanto.

VOTO: 10/10

Dersu Uzala: piccolo grande uomo

La locandina di "Dersu Uzala"

La locandina di “Dersu Uzala”

(Attenzione, contiene spoiler) In questo straordinario film di Akira Kurosawa c’è una scena talmente bella ed emozionante che da sola basterebbe a giustificare l’esistenza di questa prodigiosa opera: è la lunga sequenza in cui i due protagonisti – un cacciatore mongolo, Dersu Uzala, e un ufficiale dell’esercito russo, Vladimir Arseniev – si perdono negli sterminati spazi della Siberia. Rimasti soli sulle acque ghiacciate del lago Hanka, vicino al confine con la Cina, li vediamo affannarsi in mezzo al nulla alla disperata ricerca della direzione che hanno seguito per arrivare fin lì. Mentre provano, senza successo, a ritrovare la via giusta per uscire da quel posto, che nel frattempo sembra essersi trasformato in una prigione a cielo aperto, il cacciatore capisce che sta per scatenarsi una bufera. Sempre più preoccupato da quello che potrebbe accadere da un momento all’altro, Dersu avverte l’ufficiale del pericolo imminente che debbono affrontare. Fortunatamente, il cacciatore ha la provvidenziale e geniale idea che potrebbe salvarli entrambi: costruire una piccola capanna ammucchiando uno sopra l’altro dei fili d’erba, che però debbono provvedere a tagliare correndo come dei pazzi per anticipare l’arrivo della tormenta. Senza perdere ulteriore tempo, i due cominciano immediatamente a tagliare i pochi fili d’erba che offre l’aspro paesaggio che li circonda: solo che mentre Dersu corre instancabilmente come fosse dotato di una forza inesauribile, l’ufficiale sviene stremato dalla fatica proprio quando sta per arrivare la tempesta. Per sua fortuna, però, ci pensa il cacciatore a salvarlo: grazie allo straordinario spirito di iniziativa di cui è dotato, Dersu da solo riesce – nonostante le forti raffiche di vento e il progressivo e minaccioso avanzare del buio – a costruire l’improvvisata ma efficace capanna all’interno della quale entrambi possono trovare riparo dalla bufera. Al suo risveglio, Arseniev ringrazia Dersu per avergli salvato la vita: “Grazie, Dersu; come avrei fatto senza di te?” “Insieme noi va, insieme noi lavora; non serve grazie” questa la disarmante risposta del cacciatore.

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Dopo essere scampati alla furia della tormenta, tra i due uomini sboccerà una sincera e profonda amicizia che li legherà per sempre. Ci sembrava doveroso raccontare per filo e per segno questa meravigliosa e impressionante scena, ricca di tensione e commozione, in cui Kurosawa dà fondo a tutto il suo immenso talento per mostrarci come nasce l’amicizia tra Dersu Uzala (interpretato da un bravissimo Maksim Munzuk), il cacciatore mongolo piccolo di statura ma con un cuore grande e generoso, e Vladimir Arseniev (un ottimo Yuri Solomin), l’ufficiale russo che nel 1902 si reca in Siberia per effettuare dei rilevamenti topografici. Questa formidabile opera (tratta da due libri del suddetto ufficiale russo, “Dersu Uzala” e “Nel profondo Ussuri”, nei quali l’autore racconta le sue esplorazioni in Siberia agli inizi del ventesimo secolo) consentì al regista nipponico di rifarsi dall’insuccesso di pubblico della sua pellicola precedente, “Dodes’ka-den”, che fu un fallimento commerciale nonostante il suo grande valore, a causa del quale Kurosawa sprofondò in una grave crisi personale, che lo indusse a tentare perfino il suicidio e ad abbandonare il cinema per cinque anni. E il maestro giapponese (che firma la sceneggiatura insieme a Yuri Nagibin) non poteva realizzare film migliore di questo per certificare la sua rinascita esistenziale e artistica: “Dersu Uzala” (vincitore dell’Oscar per il Miglior Film Straniero), oltre che uno splendido elogio dell’amicizia, è un poema epico sulla natura (che Kurosawa filma con superba maestria) e sul rapporto che l’uomo ha con essa.

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Come il solitario e altruista cacciatore mongolo, che non ha più nessuno al mondo e che vive libero nei boschi della taiga siberiana e che parla abitualmente con gli animali e gli elementi naturali (acqua, fuoco e vento) come se parlasse con le persone; cosa del tutto normale per lui, dato che la natura è la sua casa, e senza di essa egli si sentirebbe perso. Infatti, quando l’ufficiale proverà a portarlo a casa con sé, Dersu, ormai anziano e quasi completamente cieco, si sentirà come chiuso in una prigione, e la nostalgia per la vita che conduceva all’aria aperta crescerà a tal punto da convincerlo a ritornare nella sua amata taiga per riprendere contatto con le sue vecchie abitudini. “Dersu Uzala” è un film stupendo, struggente, ricco di momenti memorabili (oltre alla folgorante sequenza descritta all’inizio, sono da citare anche la commovente scena in cui i due protagonisti si salutano credendo di non rivedersi mai più e il bellissimo finale silenzioso, in cui Arseniev ripensa a Dersu con lo sguardo perso nel vuoto). Notevole la fotografia curata da Fyodor Dobronravov, Yuri Gantman e Asakazu Nakai. Frase da ricordare: “L’uomo è davvero piccolo rispetto alla grandezza della natura”. L’unico rammarico è quello di non poter vedere questa autentica pietra miliare nella versione originale: quella italiana, infatti, è scandalosamente tagliata di quindici minuti. Anche così, però, “Dersu Uzala” è un capolavoro. Senza ombra di dubbio, è uno dei film più belli che Kurosawa abbia mai girato.

VOTO: 10/10

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