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Nella scia di Poseidone

La copertina di

La copertina di “In the Wake of Poseidon”

Un anno dopo aver esordito con il folgorante “In the Court of the Crimson King” (1969), uno degli album più influenti e fondamentali di sempre, i King Crimson danno alle stampe il loro secondo lavoro, “In the Wake of Poseidon” (1970), che ribadisce la grandezza del gruppo inglese proiettandolo definitivamente nel firmamento della musica mondiale. Rispetto alla formazione che ha inciso il primo album, però, c’è da segnalare la defezione del polistrumentista Ian McDonald, che viene sostituito egregiamente da Mel Collins, mentre il bassista e cantante Greg Lake rinuncia a suonare il suo strumento, che finisce nelle mani di Peter Giles (fratello del batterista Michael Giles), per dedicarsi solo alle parti vocali, tranne che nel caso di “Cadence and Cascade”, in cui Lake cede il microfono al meno convincente Gordon Haskell. Pur essendo un gradino sotto a “In the Court of the Crimson King”, “In the Wake of Poseidon” è un ottimo disco che ha il solo difetto di avere una prima facciata che somiglia un po’ troppo a quella del suo predecessore. Dopo una breve canzone, “Peace – A Beginning”, che non dura nemmeno un minuto, parte la furiosa “Pictures of a City”, che segue lo stesso schema di “21st Century Schizoid Man”: riff di chitarra aggressivo, cantato distorto, lunga parte centrale (durante la quale Robert Fripp sfoggia un assolo da urlo) in cui il pezzo divaga fino a prendere una forma totalmente diversa e ripresa del tema principale nel finale; è una gran bella canzone, “Pictures of a City”, malgrado non raggiunga i vertici del brano che apriva “In the Court of the Crimson King”.

Robert Fripp

Robert Fripp

La già citata “Cadence and Cascade” è una ballata sognante nello stile di “I Talk to the Wind”: come quest’ultima, infatti, anch’essa presenta una melodia dolce e tranquilla in cui spiccano il soave flauto di Mel Collins, che con questa splendida prova dimostra di essere un fiatista eccellente, tanto da non far rimpiangere Ian McDonald, e il sublime pianoforte di Keith Tippett, che impreziosisce il tutto con il suo tocco morbido e raffinato. Fripp si esibisce alla chitarra acustica e la voce di Gordon Haskell prende il posto di quella di Greg Lake: nel cambio ci si perde, perché come cantante il primo non vale il secondo, ma, nonostante ciò, la canzone si fa apprezzare per l’atmosfera soffusa e delicata che la permea. La title track è un pezzo epico e trascinante che riprende le sonorità di “Epitaph”, e anche questa volta la voce di Lake e il mellotron, suonato da Fripp con uno stile impetuoso, riescono a farci venire la pelle d’oca. “Peace – A Theme” è un breve strumentale eseguito alla chitarra acustica da Fripp (che da solo firma quasi tutte le musiche dell’album, mentre i testi sono di Peter Sinfield), dopo il quale c’è “Cat Food”, un brano dal ritmo contagioso che si avvale degli stupendi interventi pianistici di Keith Tippett e che si conclude con una coda strumentale che sconfina nel free jazz. Il mellotron torna ad essere assoluto protagonista in “The Devil’s Triangle”, uno strumentale debordante lungo quasi dodici minuti in cui Fripp usa e abusa dello strumento in questione per creare un’atmosfera oscura e minacciosa di grande effetto e in cui c’è spazio perfino per un’autocitazione tanto geniale quanto curiosa (a un certo punto, infatti, si sente un frammento della traccia che dava il titolo all’LP precedente della band). L’album si chiude con la delicata “Peace – An End”, le cui poetiche parole (il testo è uno dei più belli scaturiti dalla penna di Sinfield) sono cantate con trasporto da un Greg Lake in grande spolvero. Sebbene sia meno dirompente rispetto all’opera d’esordio del Re Cremisi, “In the Wake of Poseidon” è comunque un lavoro di eccelsa fattura che merita senz’altro un posto di rilievo nella discografia del gruppo.

VOTO: 9/10

Arthur e la follia della guerra

La locandina di "Per il re e per la patria"

La locandina di “Per il re e per la patria”

(Attenzione, contiene spoiler) Qual è il film antimilitarista più bello di tutti i tempi? “All’ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone, “La grande illusione” (1937) di Jean Renoir, “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick, “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) di David Lean, “L’arpa birmana” (1956) di Kon Ichikawa, “E Johnny prese il fucile” (1971) di Dalton Trumbo, “Il grande uno rosso” (1980) di Samuel Fuller, o “La sottile linea rossa” (1998) di Terrence Malick? Ognuno può scegliere quello che preferisce, ma nella rosa dei canditati al titolo di Miglior Film Antimilitarista della Storia del Cinema non può di certo mancare “Per il re e per la patria” (1964) di Joseph Losey. Basandosi su un testo teatrale di John Wilson, “Hamp”, il cui adattamento cinematografico è stato curato da Evan Jones, il regista americano trapiantato in Inghilterra per sfuggire al maccartismo racconta la vicenda di un giovane soldato britannico, il ventitreenne Arthur James Hamp, che nel 1917, a Passchendaele, durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver combattuto per tre anni, rischia di essere fucilato per diserzione. Arthur, visibilmente scosso, dice che voleva andare il più lontano possibile dai cannoni; l’ufficiale incaricato di difenderlo nel processo, il capitano Charles Hargreaves, prima lo tratta con sufficienza e disprezzo (nel corso del loro colloquio gli ricorda che quando si parla con un ufficiale è necessario stare sull’attenti), poi inizia a provare pietà per lui e decide di impegnarsi per scagionarlo. Hargreaves sostiene che quando Arthur si è allontanato dal suo reparto non si rendeva perfettamente conto di quello che stava facendo perché aveva subito uno shock da esplosione: “L’imputato, quando ha compiuto gli atti per i quali è processato, non era responsabile delle sue azioni. Questa corte è responsabile delle sue azioni, ha pieno dominio di se stessa, questa corte sa benissimo quello che fa, questa corte ha dunque piena facoltà di scelta. Il soldato Hamp non è un bugiardo, non ha la parola né la risposta facile, ha un’onestà disarmante che fa di lui un pessimo testimone di se stesso.

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Avrebbe potuto spararsi in una gamba e rischiare non più di qualche mese di prigione. Ha anche detto di averci pensato, ma non lo fece, restò. Un disertore che ha piena coscienza di quello che fa scappa via soltanto per salvare la pelle e lascia i suoi compagni a combattere e a morire per lui, ma quest’uomo non è un disertore, è un volontario. Vero che si arruolò perché fu sfidato a farlo dalla moglie e dalla suocera, ma non importa, si arruolò. E’ stato al fronte per tre anni, più a lungo, se mi è permesso dirlo, di alcuni di noi. Le ha viste tutte. Un uomo non può sopportarne tante, tanto sangue, tanto sudiciume, tanti morti. In quella buca di granata credette di annegare nel fango e che la sua ora fosse venuta. Dopo di allora non è stato più responsabile delle sue azioni, non ha saputo più discernere tra quello che doveva e non doveva fare. Dentro di lui non sentì che un impulso, l’impulso di camminare, di andare a casa, di andare lontano dai cannoni. La loro voce per noi è diventata un fatto abituale, tanto che ormai non ci chiediamo quasi più perché sparino. Siamo da tanto in guerra, siamo così abbruttiti da averlo dimenticato; ma non lottiamo forse per salvaguardare un principio di onestà, per un principio di giustizia, per dare a tutti i tribunali come questo il diritto di decidere? Ricordo a questa corte che se non si rende giustizia anche a un uomo solo, allora tutti gli altri muoiono invano”. L’accorata arringa del capitano, però, non può ribaltare una sentenza che sembra già scritta: Arthur, infatti, è riconosciuto colpevole di diserzione e condannato a morte mediante fucilazione.

Dirk Bogarde e Peter Copley

Dirk Bogarde e Peter Copley

Per provare quanto sia folle, inutile e insensata la guerra, Losey ricorre a una messa in scena cupa e claustrofobica in cui gli spazi chiusi amplificano il disagio fisico e mentale dei militari costretti a combattere come degli automi. Se uno di loro mostra segni di cedimento psichico, i dottori pensano che sia un pusillanime e che stia fingendo per essere esentato dai suoi doveri di soldato, cosa che succede al povero Arthur, un umile calzolaio arruolatosi volontario “per il re e per la patria” (così dice lui stesso al capitano quando questi gli chiede per quale motivo abbia deciso di entrare nell’esercito) e per dimostrare alla moglie e alla suocera di essere abbastanza coraggioso da partire per il fronte, che finisce per pagare con la vita la sua innocente camminata per trovare un po’ di pace e tranquillità lontano dagli orrori del conflitto (notevole il lavoro sul sonoro, con i cannoni che rimbombano sullo sfondo per tutto il film). “Siamo degli assassini” dice Hargreaves, che con queste parole esprime al colonnello tutto il suo disgusto per la sentenza: “Fucilate un povero imbecille perché ha fatto una passeggiata. Questo e niente altro. Tecnicamente ha disertato, ma in realtà è stata solo una passeggiata. E lei lo sa bene, vero?”. Arthur viene punito oltre misura in base all’aberrante logica del “punirne uno per educarne cento”. Secondo coloro che occupano i piani alti della gerarchia militare è lecito giustiziare un soldato che ha fatto una semplice camminata allo scopo di dissuadere i suoi commilitoni dal fare altrettanto.

Una scena del film

Una scena del film

La scena della fucilazione è sconvolgente: Arthur non viene ucciso dal plotone di esecuzione, ma da colui che aveva cercato in tutti i modi di sottrarlo alla pena di morte, ossia il capitano Hargreaves, che gli spara un colpo di pistola in bocca ponendo così fine a una storia tragica e assurda allo stesso tempo. Avvalendosi della splendida fotografia di Denys N. Coop, che immerge le scene nell’oscurità di un bianco e nero buio come la notte, e delle fondamentali scenografie di Richard MacDonald e Peter Mullins, che ricreano in studio la squallida trincea, trasformata in un acquitrino dalla pioggia che cade incessante, in cui si svolge l’azione, Losey, senza un briciolo di retorica e senza scivolare mai nel didascalico, grazie a una narrazione stringata e a un ritmo che non conosce pause, attraverso calibrati movimenti di macchina e intensi primi piani che scrutano gli abissi dell’anima umana, lancia un grido contro la guerra, che non produce vincitori ma solo vinti (“Tutti abbiamo perso” afferma Hargreaves), e realizza un’opera di straordinaria fattura, allucinante e coinvolgente, tesa e appassionante, impreziosita da un cast eccellente, in cui spiccano le encomiabili prove di Tom Courtenay (Arthur James Hamp) e Dirk Bogarde (Charles Hargreaves). Nel 1964 “Per il re e per la patria” passò in Concorso al Festival di Venezia, ma la giuria, presieduta da Mario Soldati, assegnò il Leone d’oro a “Il deserto rosso” (1964) di Michelangelo Antonioni, un film bello ma inferiore a quello di Losey. Tom Courtenay venne premiato con la Coppa Volpi per la Miglior Interpretazione Maschile, ma anche Dirk Bogarde avrebbe meritato altrettanto.

VOTO: 10/10

Il motel della paura

La locandina di "Vacancy"

La locandina di “Vacancy”

(Attenzione, contiene spoiler) L’inizio di questo film è quanto di più prevedibile si possa immaginare. C’è, infatti, una coppia, Amy e David Fox (Kate Beckinsale e Luke Wilson), che mentre sta viaggiando in macchina litiga per i motivi più futili e che dopo aver investito un procione è costretta a fermarsi in una stazione di servizio, che, naturalmente, si trova in mezzo al nulla, per far controllare l’automobile. Chiunque capirebbe che il meccanico a cui Amy e David si rivolgono è tutto fuorché una persona raccomandabile, tranne, ovviamente, loro due, che, molto ingenuamente, si fidano del suddetto meccanico, il quale, anziché riparare il guasto, fa in modo che la vettura, dopo pochi chilometri, abbia un altro guasto per costringere i coniugi Fox a tornare indietro da lui. Nel frattempo, però, è calata la notte e quest’ultimo, guarda caso, è sparito chissà dove, così i due protagonisti non hanno altra scelta che attendere il giorno seguente riposando in un obsoleto e fatiscente motel, gestito da un tizio strano ma all’apparenza innocuo, che in seguito si rivela essere un feroce assassino. Noi spettatori, non appena lo guardiamo in faccia, capiamo subito che quell’individuo è un soggetto inaffidabile da cui sarebbe meglio stare alla larga. Amy e David, invece, non si rendono conto che quel tipo è un pazzo omicida finché non infilano una vecchia videocassetta in un videoregistratore marcio e scoprono con orrore che la stessa, anziché un classico del cinema, contiene uno snuff movie girato proprio nella camera dove loro due si accingono a passare la notte. Da quel momento finisce la fiera dell’ovvietà e il film prende quota. Nella parte centrale si respira un’aria malsana e opprimente, la storia riserva suspense e tensione, che il regista dosa in modo accorto, e il ritmo sostenuto tiene desta l’attenzione dello spettatore. Purtroppo però la pellicola crolla nel finale, rischiando di rovinare quanto di buono fatto in precedenza. Sinceramente non si capisce a cosa si debba una conclusione così insoddisfacente. Forse il regista non sapeva come concludere la vicenda? Oppure all’improvviso erano finiti i soldi del budget e Nimród Antal non ha potuto girare altre scene? Qualunque sia la ragione, è un peccato: con un finale convincente, “Vacancy” poteva essere un buon film di genere. Così, invece, è un thriller interessante che però lascia un senso di incompiutezza. Ad ogni modo, un’occhiata la merita.

VOTO: 6/10

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