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Arthur e la follia della guerra

La locandina di "Per il re e per la patria"

La locandina di “Per il re e per la patria”

(Attenzione, contiene spoiler) Qual è il film antimilitarista più bello di tutti i tempi? “All’ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone, “La grande illusione” (1937) di Jean Renoir, “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick, “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) di David Lean, “L’arpa birmana” (1956) di Kon Ichikawa, “E Johnny prese il fucile” (1971) di Dalton Trumbo, “Il grande uno rosso” (1980) di Samuel Fuller, o “La sottile linea rossa” (1998) di Terrence Malick? Ognuno può scegliere quello che preferisce, ma nella rosa dei canditati al titolo di Miglior Film Antimilitarista della Storia del Cinema non può di certo mancare “Per il re e per la patria” (1964) di Joseph Losey. Basandosi su un testo teatrale di John Wilson, “Hamp”, il cui adattamento cinematografico è stato curato da Evan Jones, il regista americano trapiantato in Inghilterra per sfuggire al maccartismo racconta la vicenda di un giovane soldato britannico, il ventitreenne Arthur James Hamp, che nel 1917, a Passchendaele, durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver combattuto per tre anni, rischia di essere fucilato per diserzione. Arthur, visibilmente scosso, dice che voleva andare il più lontano possibile dai cannoni; l’ufficiale incaricato di difenderlo nel processo, il capitano Charles Hargreaves, prima lo tratta con sufficienza e disprezzo (nel corso del loro colloquio gli ricorda che quando si parla con un ufficiale è necessario stare sull’attenti), poi inizia a provare pietà per lui e decide di impegnarsi per scagionarlo. Hargreaves sostiene che quando Arthur si è allontanato dal suo reparto non si rendeva perfettamente conto di quello che stava facendo perché aveva subito uno shock da esplosione: “L’imputato, quando ha compiuto gli atti per i quali è processato, non era responsabile delle sue azioni. Questa corte è responsabile delle sue azioni, ha pieno dominio di se stessa, questa corte sa benissimo quello che fa, questa corte ha dunque piena facoltà di scelta. Il soldato Hamp non è un bugiardo, non ha la parola né la risposta facile, ha un’onestà disarmante che fa di lui un pessimo testimone di se stesso.

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Avrebbe potuto spararsi in una gamba e rischiare non più di qualche mese di prigione. Ha anche detto di averci pensato, ma non lo fece, restò. Un disertore che ha piena coscienza di quello che fa scappa via soltanto per salvare la pelle e lascia i suoi compagni a combattere e a morire per lui, ma quest’uomo non è un disertore, è un volontario. Vero che si arruolò perché fu sfidato a farlo dalla moglie e dalla suocera, ma non importa, si arruolò. E’ stato al fronte per tre anni, più a lungo, se mi è permesso dirlo, di alcuni di noi. Le ha viste tutte. Un uomo non può sopportarne tante, tanto sangue, tanto sudiciume, tanti morti. In quella buca di granata credette di annegare nel fango e che la sua ora fosse venuta. Dopo di allora non è stato più responsabile delle sue azioni, non ha saputo più discernere tra quello che doveva e non doveva fare. Dentro di lui non sentì che un impulso, l’impulso di camminare, di andare a casa, di andare lontano dai cannoni. La loro voce per noi è diventata un fatto abituale, tanto che ormai non ci chiediamo quasi più perché sparino. Siamo da tanto in guerra, siamo così abbruttiti da averlo dimenticato; ma non lottiamo forse per salvaguardare un principio di onestà, per un principio di giustizia, per dare a tutti i tribunali come questo il diritto di decidere? Ricordo a questa corte che se non si rende giustizia anche a un uomo solo, allora tutti gli altri muoiono invano”. L’accorata arringa del capitano, però, non può ribaltare una sentenza che sembra già scritta: Arthur, infatti, è riconosciuto colpevole di diserzione e condannato a morte mediante fucilazione.

Dirk Bogarde e Peter Copley

Dirk Bogarde e Peter Copley

Per provare quanto sia folle, inutile e insensata la guerra, Losey ricorre a una messa in scena cupa e claustrofobica in cui gli spazi chiusi amplificano il disagio fisico e mentale dei militari costretti a combattere come degli automi. Se uno di loro mostra segni di cedimento psichico, i dottori pensano che sia un pusillanime e che stia fingendo per essere esentato dai suoi doveri di soldato, cosa che succede al povero Arthur, un umile calzolaio arruolatosi volontario “per il re e per la patria” (così dice lui stesso al capitano quando questi gli chiede per quale motivo abbia deciso di entrare nell’esercito) e per dimostrare alla moglie e alla suocera di essere abbastanza coraggioso da partire per il fronte, che finisce per pagare con la vita la sua innocente camminata per trovare un po’ di pace e tranquillità lontano dagli orrori del conflitto (notevole il lavoro sul sonoro, con i cannoni che rimbombano sullo sfondo per tutto il film). “Siamo degli assassini” dice Hargreaves, che con queste parole esprime al colonnello tutto il suo disgusto per la sentenza: “Fucilate un povero imbecille perché ha fatto una passeggiata. Questo e niente altro. Tecnicamente ha disertato, ma in realtà è stata solo una passeggiata. E lei lo sa bene, vero?”. Arthur viene punito oltre misura in base all’aberrante logica del “punirne uno per educarne cento”. Secondo coloro che occupano i piani alti della gerarchia militare è lecito giustiziare un soldato che ha fatto una semplice camminata allo scopo di dissuadere i suoi commilitoni dal fare altrettanto.

Una scena del film

Una scena del film

La scena della fucilazione è sconvolgente: Arthur non viene ucciso dal plotone di esecuzione, ma da colui che aveva cercato in tutti i modi di sottrarlo alla pena di morte, ossia il capitano Hargreaves, che gli spara un colpo di pistola in bocca ponendo così fine a una storia tragica e assurda allo stesso tempo. Avvalendosi della splendida fotografia di Denys N. Coop, che immerge le scene nell’oscurità di un bianco e nero buio come la notte, e delle fondamentali scenografie di Richard MacDonald e Peter Mullins, che ricreano in studio la squallida trincea, trasformata in un acquitrino dalla pioggia che cade incessante, in cui si svolge l’azione, Losey, senza un briciolo di retorica e senza scivolare mai nel didascalico, grazie a una narrazione stringata e a un ritmo che non conosce pause, attraverso calibrati movimenti di macchina e intensi primi piani che scrutano gli abissi dell’anima umana, lancia un grido contro la guerra, che non produce vincitori ma solo vinti (“Tutti abbiamo perso” afferma Hargreaves), e realizza un’opera di straordinaria fattura, allucinante e coinvolgente, tesa e appassionante, impreziosita da un cast eccellente, in cui spiccano le encomiabili prove di Tom Courtenay (Arthur James Hamp) e Dirk Bogarde (Charles Hargreaves). Nel 1964 “Per il re e per la patria” passò in Concorso al Festival di Venezia, ma la giuria, presieduta da Mario Soldati, assegnò il Leone d’oro a “Il deserto rosso” (1964) di Michelangelo Antonioni, un film bello ma inferiore a quello di Losey. Tom Courtenay venne premiato con la Coppa Volpi per la Miglior Interpretazione Maschile, ma anche Dirk Bogarde avrebbe meritato altrettanto.

VOTO: 10/10

I tre samurai

La locandina di "Tre samurai fuorilegge"

La locandina di “Tre samurai fuorilegge”

(Attenzione, contiene spoiler) Confesso che questo film non lo conoscevo affatto. Non sapevo nulla nemmeno del regista che lo ha realizzato, Hideo Gosha. Ho potuto scoprire “Tre samurai fuorilegge” grazie a “Fuori Orario”, che lo ha trasmesso in una notte nella quale era programmato anche “Violent Cop”, il folgorante esordio nella regia di Takeshi Kitano. Tratto da una serie televisiva diretta dallo stesso Gosha, “Tre samurai fuorilegge” è l’opera prima per il cinema del cineasta giapponese, che ci racconta la storia di un samurai vagabondo, Shiba Sakon, che un giorno, camminando solitario senza una meta precisa, scorge la presenza di un vecchio mulino nei pressi di un borgo di campagna. Mentre vi si reca, nota per terra una spilla per capelli (un oggetto che tornerà più volte nel corso della vicenda); dopo averla raccolta, il samurai, esausto per il lungo peregrinare, entra nel macinatoio con l’intento di riposare, ma scopre che è già occupato da tre uomini, Jinbei, Gosaku e Yohachi, che tengono in ostaggio una ragazza, Aya, figlia del funzionario del villaggio, il quale spadroneggia sui poveri contadini, che sono stanchi di subire le sue prevaricazioni. Alla base del gesto estremo compiuto dai coltivatori c’è l’intenzione di costringere il funzionario ad abbassare le tasse. Jinbei, Gosaku e Yohachi sono determinati e disposti a tutto, anche a morire, pur di far valere le proprie ragioni. Colpito e ammirato dal coraggio dimostrato dai villici, Shiba decide di schierarsi al loro fianco.

Tetsuro Tamba, Isamu Nagato e Mikijiro Hira

Tetsuro Tamba, Isamu Nagato e Mikijiro Hira

Dopo aver fallito un primo tentativo di liberare la figlia, il funzionario ci riprova mettendo insieme una squadra composta da un suo scagnozzo abile con la katana, Kikyo Einosuke, un samurai rinchiuso in cella per vagabondaggio, Sakura Kyojuro, e tre detenuti condannati a morte; ma questi ultimi vengono sconfitti facilmente da Shiba e Sakura, che proviene da una famiglia di contadini, quando viene messo al corrente delle motivazioni che hanno spinto Jinbei, Gosaku e Yohachi a rapire la ragazza, senza pensarci troppo segue l’esempio di Shiba e anch’egli si schiera dalla parte degli agricoltori, mentre Kikyo, impassibile e disinteressato, assiste alla scena senza muovere nemmeno un dito. Irato per l’esito negativo del blitz realizzato per sottrarre Aya ai suoi sequestratori, il funzionario prima assolda dodici mercenari ordinando loro di uccidere i contadini, poi assegna a Kikyo il compito di rapire la figlia di Gosaku, Yasu. Gosha (autore anche della sceneggiatura insieme a Eizaburo Shiba e Keiichi Abe) è molto bravo nel costruire personaggi complessi e tormentati, pieni di contraddizioni, ripensamenti e problemi esistenziali (si pensi, ad esempio, ad Aya, che finisce con l’invaghirsi di Shiba; oppure a Sakura, angosciato dal rimorso di aver ucciso il marito, Mosuke, della donna di cui è innamorato, Iné), che popolano un coinvolgente affresco sociale intriso di dolore, brutalità e sangue.

Mikijiro Hira, Tetsuro Tamba e Isamu Nagato

Mikijiro Hira, Tetsuro Tamba e Isamu Nagato

Da una parte c’è l’arroganza e la protervia dei potenti, che esercitano la loro forza sui deboli, dall’altra c’è la disperazione e la sofferenza della povera gente, costretta a subire vessazioni di ogni sorta: sebbene il regista non nasconda di parteggiare per i contadini nella battaglia che questi ultimi ingaggiano contro il potere, qui rappresentato da un funzionario altezzoso e crudele che non esita a ricorrere alla violenza, il film non scade mai nel manicheismo. Gosha riesce a celebrare coloro che conducono una vita di stenti e sacrifici senza retorica né patetismo, arrivando a toccarci nel profondo con momenti di assoluta poesia (specialmente nella struggente e tenera storia d’amore tra Iné e Sakura). Il regista nipponico gira con uno stile folgorante, lirico e frenetico al contempo, tenendo un ritmo ineccepibile che non conosce cedimenti. La pellicola contiene combattimenti spettacolari ed emozionanti (la resa dei conti finale tra i tre samurai del titolo e gli sgherri del funzionario è da antologia), nei quali Gosha utilizza alla perfezione il CinemaScope (splendide le riprese oblique). Eccellenti il montaggio di Kazuo Ota, che conferisce un grande dinamismo all’azione, e la fotografia di Tadashi Sakai, che “sporca” il bianco e nero quel tanto che basta per far sì che la pellicola guadagni in realismo. Ottime le prove di Tetsuro Tamba (Shiba), Isamu Nagato (Sakura) e Mikijiro Hira (Kikyo). Ricco di sequenze memorabili (tra le tante citiamo quella in cui Shiba subisce cento frustate, davvero straziante e impressionante), “Tre samurai fuorilegge” è un film teso, appassionante e avvincente. In una parola sola: stupendo.

VOTO: 10/10

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