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Herzog contro il vulcano

Una scena di "La Soufrière"

Una scena di “La Soufrière”

(Attenzione, contiene spoiler) “Nell’estate del 1976 si erano verificate gravi catastrofi in molte parti del mondo. La terra tremava ovunque, in Friuli, nelle Filippine, in Cina nel modo peggiore e in America Latina. Nell’agosto del 1976 vi erano forti segnali di un’imminente eruzione del vulcano La Soufrière sull’isola di Guadalupa nelle Antille francesi. Fin dalla primavera la montagna aveva dato segnali per cui erano stati chiamati degli scienziati. Alla fine di agosto, gli eventi presero una piega drammatica. Non si prevedeva più una normale eruzione bensì l’esplosione dell’intero monte con la forza di 5-6 bombe atomiche. Di conseguenza vennero evacuati 75.000 abitanti dai dintorni del monte, tutta la parte meridionale dell’isola. Io fui istantaneamente affascinato dall’evento quando lessi sul giornale che un unico, povero contadino che viveva sulle pendici del vulcano si era rifiutato di andarsene. Il giorno stesso partii con due operatori, Ed Lachman e Jörg Schmidt-Reitwein. Il giorno dopo eravamo a Basse-Terre, all’estremità sud dell’isola, un luogo con 17.000 abitanti, quello più a rischio. Il luogo era totalmente deserto, ma nella fretta era stato dimenticato di spegnere i semafori. Anche le cabine telefoniche erano ancora in funzione e in molte case erano ancora accesi i condizionatori e i frigoriferi. In una casa trovammo addirittura un televisore acceso”. Così parla Werner Herzog all’inizio del film. E chi altri, se non lui, poteva avere il coraggio di imbarcarsi nella rischiosa realizzazione di una pellicola che mostrasse la probabile e imminente esplosione di un vulcano mettendo così in pericolo la propria incolumità personale? Scommettiamo che se facessimo vedere questo formidabile e meraviglioso film a qualcuno che non lo conosce egli riuscirebbe ad indovinare il nome di colui che lo ha diretto nel giro di pochi minuti?

Werner Herzog

Werner Herzog

D’altronde, che siano scrittori, musicisti o registi, i grandi autori sono tali perché, qualunque cosa facciano, essendo dotati di uno stile unico, hanno la prerogativa di rendersi immediatamente riconoscibili, cosa che consente loro di distinguersi dalla massa e di svettare così al di sopra dei mediocri mestieranti privi di qualsiasi talento. Per fare un paio di esempi, a Franz Kafka bastavano poche righe per far capire al lettore che soltanto un fenomeno della scrittura come lui era capace di concepire racconti geniali come “Il processo” (1925) e “La metamorfosi” (1915), mentre a Frank Zappa erano sufficienti un pugno di note per far comprendere all’ascoltatore che solo una mente illuminata come la sua era in grado di generare dischi epocali quali “Hot Rats” (1969) e “Uncle Meat” (1969). Con Werner Herzog succede la stessa identica cosa: se un film porta la sua firma, lo si capisce subito. Come nel caso di “La Soufrière – In attesa di una catastrofe inevitabile” (1977). Lo abbiamo già detto qualche riga sopra, ma lo ribadiamo: quale altro regista poteva essere così incosciente da rischiare la vita per andare a filmare l’esplosione di un vulcano che sarebbe dovuta avvenire, per usare le parole del filmmaker tedesco, “con la forza di 5-6 bombe atomiche”? Se facessimo una classifica dei cineasti più folli della Storia del Cinema, Herzog vincerebbe quasi a mani basse. Sì, certo, anche Erich von Stroheim e Orson Welles non scherzavano, ma volete mettere con Herzog? Non c’è paragone, lui batte tutti. Per coloro che non lo sapessero, stiamo parlando di uno che, durante le riprese del delirante “Fitzcarraldo” (1982), ha preteso che una nave di 340 tonnellate venisse trasportata per davvero su una montagna, e che mentre girava “Aguirre, furore di Dio” (1972) ha minacciato di uccidere Klaus Kinski e di suicidarsi con un fucile perché l’attore voleva abbandonare il set del film. Se ci riuscite, provate a trovare un altro regista che possa competere con uno capace di arrivare a tanto. In un interessante documentario diretto da Erwin Kauch e Christian Weisenborn, “Io sono i miei film” (1978), Herzog, intervistato da Laurense Straub, raccontava la difficile e pericolosa lavorazione di “La Soufrière” con queste parole:

“E’ nato in modo totalmente spontaneo e ora è un film del tutto ridicolo proprio perché fu intrapreso così pateticamente, mentre quella montagna non è mai saltata in aria. E ovviamente questa è un’assurdità perché parti con grande slancio e corri dei rischi e poi la montagna non esplode”.

“Beh, io lo trovo piuttosto confortante”.

“Perché confortante? Voglio dire, io avevo pensato: “Se esplode, va bene ugualmente”. Forse ho già prodotto abbastanza e prima o poi ci tocca comunque, non importa se su un vulcano o, non so, cadendo dalle scale. Siamo andati lì, non per divertirci su un vulcano prossimo all’esplosione, bensì perché avevamo saputo di due o tre poveri contadini che rifiutavano l’evacuazione. Erano state evacuate rapidamente 75.000 persone, c’erano sbarramenti militari a circa 35 km di distanza che noi abbiamo passato…”

“A piedi?”

“Pure con l’auto, si riusciva ad avanzare abbastanza, poi a piedi fin sul bordo del cratere dove abbiamo girato per sei ore, credo, nel complesso, e il giorno dopo di nuovo. E’ chiaro che in fondo speravamo che non esplodesse, e infatti poi non è esploso, però abbiamo corso quel rischio. Uno dei due operatori, mentre io mi occupavo del suono, mi chiese: “Che succede se la montagna esplode?” La fuga non aveva senso, a meno di non allontanarsi almeno di 20 km. Ebbene, saremmo saltati per aria anche noi, e sembrava pure probabile visto che quel giorno c’era stato uno sciame sismico”.

“E tu sei l’artista puro che agisce senza rete di sicurezza o hai un’assicurazione sulla vita?”

“Guarda, io sono uno che odia queste cose, le assicurazioni sulla vita… Tanta di quella civiltà è rovinata dall’assicurare sempre tutto. Però devo dire, Laurens, avere o non avere paura è sempre solo questione del tipo di rapporto instaurato con la propria morte. E, una volta chiarito questo, il resto è indifferente, ininfluente”.

Capito? A Werner Herzog non importava un bel niente di morire. Se quel vulcano voleva esplodere, lui era pronto a saltare in aria con esso. Chiamatelo pazzo, incosciente, o come diavolo vi pare, ma resta il fatto che Herzog è un autore unico e inimitabile, le cui opere raggiungono livelli di incomparabile bellezza, collocandosi nell’Olimpo dell’Arte. E la morte? Può pure andare a farsi fottere. Herzog è un cineasta estremo che concepisce il cinema come una continua sfida per mettere alla prova se stesso, e se per spingersi oltre i suoi limiti deve rischiare di andare all’altro mondo, per lui non c’è nessun problema. Per svolgere il suo lavoro di regista nomade sempre alla ricerca di sfide impossibili, Herzog è disposto anche a rimetterci la vita. Per questo motivo era rimasto attratto dalla storia del contadino che non aveva voluto abbandonare quel luogo così pericoloso. Mentre gli altri cittadini avevano accettato di essere trasferiti in zone più sicure, l’umile campagnolo non aveva voluto saperne di andarsene. Aveva preferito rimanere lì ad aspettare che giungesse la sua ora. La scena in cui Herzog lo incontra per intervistarlo, mentre l’uomo sta riposando sotto un albero insieme a un gatto bianco e nero che sta dormendo tranquillamente, è memorabile.

“Lei rifiuta di abbandonare questo posto?”

“Sì, sono qui come Dio comanda. Aspetto la mia morte. Non saprei nemmeno dove andare. Non ho niente in tasca, sono povero”.

“Lei aspetta la sua morte?”

“Sì. Nessuno sa quando arriva. Secondo la volontà di Dio. Non chiama solo me, ci chiama tutti. Come la vita, anche la morte è eterna. Non ho per niente paura. Sì, come Dio comanda. Nessuno sa l’ora della morte”.

“Ha paura?”

“No, per niente”.

“Perché no?”

“Dio ci chiama tutti, non solo uno, non solo me. Ci ha riservato questo”.

“Perché non si lascia evacuare?”

“Dove vuole che vada? La morte è sempre in attesa, eterna. Non ho paura di morire”.

“Ma, senta, è pericoloso stare qui. E’ come stare su una polveriera”.

“Sì, certo, ma siamo qua come Dio comanda, sì, come Dio vuole, e io non ho paura, per niente. Perché dovrei andare via? Per poi tornare? E dove dovrei andare?”

“Mi racconta della sua vita?”

“Io sono contento di me stesso, solo di quello che ho dentro. Non possiedo niente, proprio niente e aspetto la mia morte. Vede? Così, così la aspetto. Aspetto anche un ciclone. E’ stato annunciato, ma ho già visto tanti cicloni. Li annunciano sempre. Ad agosto e settembre arrivano i cicloni. Ne ho visti già tanti. Lei è ancora giovane, non li ha ancora visti”.

Una scena di "La Soufrière"

Una scena di “La Soufrière”

Come diceva Bob Dylan in una delle sue canzoni più belle e famose, “Like a Rolling Stone” (1965), “quando non possiedi più nulla, non hai nulla da perdere”. Non sappiamo se quel temerario contadino conoscesse le succitate parole del menestrello di Duluth, ma sta di fatto che sembrava averle prese alla lettera. Ad ogni modo, per fortuna, il vulcano non è saltato in aria e Werner Herzog, grazie alla benevolenza della natura, ha potuto portare a termine sano e salvo la lavorazione di questo documentario (ma definirlo così è alquanto riduttivo), tanto breve (dura appena trenta minuti) quanto intenso, che vola talmente alto (indimenticabile il racconto della terribile catastrofe avvenuta a Saint-Pierre l’8 maggio del 1902, quando una nuvola di gas incandescente sprigionatasi dal monte Pelée investì i residenti dell’ex capitale della Martinica provocando circa 30.000 vittime e lasciando un solo sopravvissuto, un detenuto di nome Louis-Auguste Cyparis, che scampò alla tragedia perché in quel momento si trovava rinchiuso nel sotterraneo privo di finestre della prigione locale) da meritare di essere annoverato tra le cose migliori che il regista bavarese abbia fatto nel corso della sua lunga e avventurosa carriera, la quale è ben lungi dall’essere finita, dato che il maestro è vivo e vegeto e lotta insieme a noi. Finché la salute lo sostiene, il visionario e infaticabile Herzog può andarsene in giro per il mondo alla ricerca di nuove e incredibili storie da tradurre in immagini per la gioia dei suoi ammiratori. L’ultima parola, com’è giusto che sia, la lasciamo a lui: “Il vulcano non esplose. Trascorsero i giorni. I segnali di una catastrofe andarono diminuendo. Dopo settimane le persone tornarono lentamente nei villaggi e nelle città. La mancata eruzione resterà un enigma poiché mai prima di allora nella storia della vulcanologia erano stati misurati segnali in quell’ordine di grandezza senza che poi sia accaduto nulla. Probabilmente il vulcano cadrà presto nel dimenticatoio. Eppure il pericolo ha avuto il pregio di informare l’opinione pubblica mondiale mediante la stampa circa le condizioni di povertà e trascuratezza in cui versa la popolazione nera dell’isola di Guadalupa. Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò”.

VOTO: 10/10

Dersu Uzala: piccolo grande uomo

La locandina di "Dersu Uzala"

La locandina di “Dersu Uzala”

(Attenzione, contiene spoiler) In questo straordinario film di Akira Kurosawa c’è una scena talmente bella ed emozionante che da sola basterebbe a giustificare l’esistenza di questa prodigiosa opera: è la lunga sequenza in cui i due protagonisti – un cacciatore mongolo, Dersu Uzala, e un ufficiale dell’esercito russo, Vladimir Arseniev – si perdono negli sterminati spazi della Siberia. Rimasti soli sulle acque ghiacciate del lago Hanka, vicino al confine con la Cina, li vediamo affannarsi in mezzo al nulla alla disperata ricerca della direzione che hanno seguito per arrivare fin lì. Mentre provano, senza successo, a ritrovare la via giusta per uscire da quel posto, che nel frattempo sembra essersi trasformato in una prigione a cielo aperto, il cacciatore capisce che sta per scatenarsi una bufera. Sempre più preoccupato da quello che potrebbe accadere da un momento all’altro, Dersu avverte l’ufficiale del pericolo imminente che debbono affrontare. Fortunatamente, il cacciatore ha la provvidenziale e geniale idea che potrebbe salvarli entrambi: costruire una piccola capanna ammucchiando uno sopra l’altro dei fili d’erba, che però debbono provvedere a tagliare correndo come dei pazzi per anticipare l’arrivo della tormenta. Senza perdere ulteriore tempo, i due cominciano immediatamente a tagliare i pochi fili d’erba che offre l’aspro paesaggio che li circonda: solo che mentre Dersu corre instancabilmente come fosse dotato di una forza inesauribile, l’ufficiale sviene stremato dalla fatica proprio quando sta per arrivare la tempesta. Per sua fortuna, però, ci pensa il cacciatore a salvarlo: grazie allo straordinario spirito di iniziativa di cui è dotato, Dersu da solo riesce – nonostante le forti raffiche di vento e il progressivo e minaccioso avanzare del buio – a costruire l’improvvisata ma efficace capanna all’interno della quale entrambi possono trovare riparo dalla bufera. Al suo risveglio, Arseniev ringrazia Dersu per avergli salvato la vita: “Grazie, Dersu; come avrei fatto senza di te?” “Insieme noi va, insieme noi lavora; non serve grazie” questa la disarmante risposta del cacciatore.

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Dopo essere scampati alla furia della tormenta, tra i due uomini sboccerà una sincera e profonda amicizia che li legherà per sempre. Ci sembrava doveroso raccontare per filo e per segno questa meravigliosa e impressionante scena, ricca di tensione e commozione, in cui Kurosawa dà fondo a tutto il suo immenso talento per mostrarci come nasce l’amicizia tra Dersu Uzala (interpretato da un bravissimo Maksim Munzuk), il cacciatore mongolo piccolo di statura ma con un cuore grande e generoso, e Vladimir Arseniev (un ottimo Yuri Solomin), l’ufficiale russo che nel 1902 si reca in Siberia per effettuare dei rilevamenti topografici. Questa formidabile opera (tratta da due libri del suddetto ufficiale russo, “Dersu Uzala” e “Nel profondo Ussuri”, nei quali l’autore racconta le sue esplorazioni in Siberia agli inizi del ventesimo secolo) consentì al regista nipponico di rifarsi dall’insuccesso di pubblico della sua pellicola precedente, “Dodes’ka-den”, che fu un fallimento commerciale nonostante il suo grande valore, a causa del quale Kurosawa sprofondò in una grave crisi personale, che lo indusse a tentare perfino il suicidio e ad abbandonare il cinema per cinque anni. E il maestro giapponese (che firma la sceneggiatura insieme a Yuri Nagibin) non poteva realizzare film migliore di questo per certificare la sua rinascita esistenziale e artistica: “Dersu Uzala” (vincitore dell’Oscar per il Miglior Film Straniero), oltre che uno splendido elogio dell’amicizia, è un poema epico sulla natura (che Kurosawa filma con superba maestria) e sul rapporto che l’uomo ha con essa.

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Come il solitario e altruista cacciatore mongolo, che non ha più nessuno al mondo e che vive libero nei boschi della taiga siberiana e che parla abitualmente con gli animali e gli elementi naturali (acqua, fuoco e vento) come se parlasse con le persone; cosa del tutto normale per lui, dato che la natura è la sua casa, e senza di essa egli si sentirebbe perso. Infatti, quando l’ufficiale proverà a portarlo a casa con sé, Dersu, ormai anziano e quasi completamente cieco, si sentirà come chiuso in una prigione, e la nostalgia per la vita che conduceva all’aria aperta crescerà a tal punto da convincerlo a ritornare nella sua amata taiga per riprendere contatto con le sue vecchie abitudini. “Dersu Uzala” è un film stupendo, struggente, ricco di momenti memorabili (oltre alla folgorante sequenza descritta all’inizio, sono da citare anche la commovente scena in cui i due protagonisti si salutano credendo di non rivedersi mai più e il bellissimo finale silenzioso, in cui Arseniev ripensa a Dersu con lo sguardo perso nel vuoto). Notevole la fotografia curata da Fyodor Dobronravov, Yuri Gantman e Asakazu Nakai. Frase da ricordare: “L’uomo è davvero piccolo rispetto alla grandezza della natura”. L’unico rammarico è quello di non poter vedere questa autentica pietra miliare nella versione originale: quella italiana, infatti, è scandalosamente tagliata di quindici minuti. Anche così, però, “Dersu Uzala” è un capolavoro. Senza ombra di dubbio, è uno dei film più belli che Kurosawa abbia mai girato.

VOTO: 10/10

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