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La morte corre sul fiume

La locandina di "Undertow"

La locandina di “Undertow”

(Attenzione, contiene spoiler) Due fratelli che scappano inseguiti da un uomo malvagio che vorrebbe far loro del male. Non l’abbiamo già visto in un altro film? Ma certo, direte voi, è, in estrema sintesi, la storia di “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton; ma, aggiungiamo noi, è anche quella di “Undertow” di David Gordon Green, che, per quanto incredibile possa essere, racconta una vicenda simile a quella del capolavoro di Laughton. Non si può dire che Green manchi di coraggio: qui, addirittura, non solo si è messo in testa di rifare un film che ha segnato la Storia del Cinema, ma ha anche avuto l’ardire di realizzarlo con uno stile che ricorda molto quello dell’inarrivabile Terrence Malick. E guarda caso, quest’ultimo figura nelle vesti di produttore di “Undertow”. Green vorrebbe diventare l’erede dell’autore texano, ma nonostante abbia girato pellicole di buon valore qualitativo, come “George Washington” e “Snow Angels”, deve ancora dimostrare di essere all’altezza del maestro. “Undertow”, comunque, sebbene sia imperfetto, è un film che intriga e che merita di essere visto. Comincia citando “La rabbia giovane” di sua maestà Malick e prosegue come una specie di rifacimento di “La morte corre sul fiume”. Chris Munn (Jamie Bell) è un adolescente innamorato di una sua coetanea, Lila (Kristen Stewart), ma il padre di lei non vede di buon occhio la loro relazione. Se lo si guarda senza sapere nulla della trama, all’inizio si potrebbe pensare che “Undertow” sia incentrato sull’amore impossibile tra i due giovani. E invece no, niente di più sbagliato. Green abbandona la storia d’amore tra Chris e Lila dopo pochi minuti e fa entrare in scena un personaggio, quello dello zio del ragazzo, Deel (Josh Lucas), che all’improvviso appare dal nulla portando scompiglio nella vita della famiglia del giovane. Deel è appena uscito di prigione e ha un conto in sospeso con suo fratello, John (Dermot Mulroney), padre di Chris. Il passato burrascoso dell’ex detenuto torna a galla e durante una lite Deel uccide John con il coltello di Chris. Invece di andare alla polizia, come farebbe quasi chiunque, Chris decide di scappare insieme al fratello minore, Tim (Devon Alan).

Devon Alan e Jamie Bell

Devon Alan e Jamie Bell

E questo è il difetto principale del film: la motivazione che spinge Chris alla fuga, infatti, non convince del tutto. In un caso del genere, la cosa più logica da fare, come appena detto, è quella di andare alla polizia e raccontare la verità, ma il ragazzo preferisce darsi alla fuga perché sull’arma del delitto ci sono le sue impronte digitali. E quelle dello zio, dove sono? Non sono anch’esse sul coltello con cui Deel ha ucciso John? E poi, cosa ancora più importante, Tim, con la sua testimonianza, avrebbe potuto scagionare Chris dall’accusa di omicidio. Per dimostrare l’innocenza del fratello maggiore, gli sarebbe bastato dire la verità. Quindi perché fuggire, non si sa nemmeno bene dove, invece di recarsi al commissariato per denunciare lo zio? D’accordo, può anche darsi che Chris, data la sua giovane età, sia stato preso dal panico; ma resta il fatto che la ragione che sta alla base della sua fuga non persuade pienamente, e guardando il film non si può fare a meno di pensare che Green e il suo cosceneggiatore, Joe Conway, abbiano commesso un piccolo errore nella fase di stesura del copione che in parte inficia l’esito complessivo. Sul film, poi, pesa maledettamente la somiglianza con il già citato “La morte corre sul fiume”. E allora perché merita di essere visto, “Undertow”? Semplice: perché, bisogna riconoscerlo, Green ha talento, soprattutto sul piano visivo (e qui una bella mano gliela dà il direttore della fotografia, Tim Orr, che illumina le scene con grande perizia), e poi perché usa il fermo immagine in modo sublime. E, ancora, il finale sospeso (non si capisce se Chris riesca a salvarsi oppure no), oltre ad essere girato con grande competenza, dimostra che Green è un regista dalle potenzialità notevoli, che però dovrebbe evitare di buttarsi via dirigendo film che non aggiungono nulla al suo curriculum come “Strafumati”.

VOTO: 7/10

 

The Queen Is Dead

La locandina di "Marie Antoinette"

La locandina di “Marie Antoinette”

(Attenzione, contiene spoiler) Sofia Coppola: pessima attrice (vedere per credere la sua disastrosa interpretazione nel terzo capitolo della saga del “Padrino”) ma ottima regista. “Marie Antoinette” è un’opera raffinata ed emozionante, visivamente sontuosa, in cui ogni dettaglio è curato alla perfezione, con la quale la figlia del grande Francis Ford Coppola chiude magnificamente un’ideale trilogia, cominciata con il pregevole “Il giardino delle vergini suicide” e proseguita con il delizioso “Lost in Translation”, dedicata alla cosiddetta “giovinezza inquieta”. La pellicola (basata su un libro di Antonia Fraser, “Maria Antonietta – La solitudine di una regina”) racconta – molto liberamente – la vita di Maria Antonietta, ossia l’austriaca che divenne la regina di Francia. La storia prende il via nel 1768, quando la Francia e l’Austria raggiungono, dopo lunghe ed estenuanti trattative, un accordo di pace: per rinsaldare l’armistizio siglato con tanta fatica, l’imperatrice Maria Teresa decide di dare in sposa al nipote di re Luigi XV, Luigi Augusto, una delle sue figlie, la quattordicenne Maria Antonietta. Per la ragazza il distacco dalla famiglia è doloroso, e l’impatto con la nuova realtà inevitabilmente traumatico. Sperduta e confusa, non appena mette piede nella reggia di Versailles mostra subito segni di insofferenza verso le rigide regole che l’etichetta le impone. Il matrimonio, poi, si rivela un fallimento, perché il marito è totalmente insensibile al suo fascino, cosa che rende problematica la nascita di un erede. Costretta a subire la pressione della madre, la quale vorrebbe che lei desse alla luce un bambino prima di sua cognata, la contessa di Provenza, Maria Antonietta, nel tentativo di dimenticare le ansie e i problemi che l’affliggono, si abbandona al lusso più sfrenato e ha un flirt con il conte Hans Axel von Fersen. La gente, nel frattempo, inizia a mormorare e i pettegolezzi sui due coniugi si sprecano.

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

La ragazza, ribelle e intollerante, sempre più annoiata dalla vita di corte, cova un odio profondo contro Madame du Barry, colei che ha il compito di sollazzare il vecchio re; la sopraggiunta morte di questi (per mano del vaiolo) costringe Maria Antonietta e il suo consorte a diventare i sovrani di Francia, con tutte le responsabilità del caso. Una condotta assai superficiale degli affari di Stato da parte dei due giovani sarà loro fatale: il popolo francese, che accusa la regina di sperperare i soldi per cose futili, stremato dalla fame e dalla fatica, scatena una rivolta che porterà alla morte di Maria Antonietta mediante ghigliottina il 16 ottobre del 1793. La Rivoluzione Francese si vede soltanto nei minuti finali, quasi come fosse un evento secondario (mentre mancano del tutto la prigionia, il processo e la pena di morte a cui fu sottoposta la regina; una scelta coraggiosa e controcorrente, che però ha fatto storcere il naso ad alcuni critici), perché quello che interessa maggiormente alla regista è mostrare la difficoltà di diventare grande e lo spaesamento di un’adolescente, strappata alla sua giovinezza da una genitrice che ha pensato bene di utilizzarla come strumento per rafforzare l’accordo di pace ottenuto con la Francia, che viene obbligata a crescere più in fretta del dovuto e ad abbandonare la sua casa e i suoi familiari per essere catapultata in un Paese straniero.

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Nel raccontare ciò, la Coppola ritrova la sensibilità che permeava la sua opera prima, “Il giardino delle vergini suicide”, realizzando così un film che si muove, con finezza e tatto, sul confine invisibile che separa la giovinezza dall’età adulta, quel confine che Joseph Conrad chiamava “la linea d’ombra”, una linea tanto sottile e impercettibile quanto dolorosa e penosa, che Maria Antonietta sarà chiamata a superare anzitempo, scoprendo sulla propria pelle quanto possa essere amaro e faticoso oltrepassarla quando non si è ancora pronti per farlo. La regista, inoltre, si destreggia con grande abilità e suprema eleganza sia nelle enormi stanze della reggia di Versailles (un palazzo che conta ben 700 camere) che negli affascinanti giardini all’esterno del castello, componendo inquadrature accurate ed eleganti, dimostrando in questo modo di avere un talento non comune per l’immagine. Una biografia della regina di Francia non convenzionale, un bello schiaffo in faccia a tutti quei film in costume ingessati e senz’anima che non regalano alcuna emozione, perché realizzati da registi totalmente incapaci di infondere calore alle storie che narrano. “Marie Antoinette” trova la sua ragion d’essere nella libertà espressiva: è un’opera anticonformista, raccontata – intuizione geniale – a ritmo di rock, con brani di gruppi come Gang of Four (“Natural’s Not in It”, sparata sui titoli di testa, durante i quali vediamo Maria Antonietta degustare una torta con aria pigra e distratta), The Cure (“Plainsong” e “All Cats Are Grey”), Siouxsie and the Banshees (“Hong Kong Garden”), The Strokes (“What Ever Happened”) e New Order (“Ceremony”, sulle cui note si svolge la meravigliosa sequenza in cui la regina festeggia il suo compleanno).

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

Se il film possiede un fascino notevole, oltre che alla bravura della cineasta, lo si deve anche all’apporto impeccabile di tutto il reparto tecnico, con menzione particolare per i lussuosi costumi firmati da Milena Canonero (premiata con un meritato Oscar; per lei è il terzo dopo quelli ottenuti per “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick e “Momenti di gloria” di Hugh Hudson), ma sono parimenti degne di nota la suggestiva fotografia di Lance Acord e le ineccepibili scenografie curate da K. K. Barrett. Ragguardevole il cast (a parte Asia Argento, che interpreta Madame du Barry), nel quale compaiono gli ottimi Jason Schwartzman (Luigi XVI), Danny Huston (Giuseppe II del Sacro Romano Impero), Judy Davis (la contessa de Noailles), Marianne Faithfull (Maria Teresa d’Austria), Aurore Clément (la duchessa di Chartres) e Mathieu Amalric (in un piccolo ruolo: quello di un uomo al ballo in maschera); ma la prova che svetta su tutte le altre è sicuramente quella di Kirsten Dunst, ragazza dal viso angelico e dal corpo suadente che con la sua lucente presenza è in grado, da sola, di illuminare l’intera pellicola. Con questa eccellente interpretazione (indubbiamente la migliore della sua carriera), la Dunst si rivela una Maria Antonietta semplicemente perfetta. Infine, una curiosità: per poter avere nella colonna sonora del film tre canzoni dei Radio Dept., “Pulling Our Weight”, “I Don’t Like It Like This” e “Keen on Boys”, la regista ha dovuto svelare ai membri del gruppo cosa dice Bill Murray a Scarlett Johansson nel bellissimo finale di “Lost in Translation”. Cara Sofia (scusa se mi permetto di darti del tu): dal momento che, oltre ad essere un grande ammiratore dei tuoi film, pure io sono curioso di sapere cosa bisbigli il vecchio Bill all’orecchio della dolce Scarlett in quella struggente scena che scorre sulle ammalianti note di “Just Like Honey” dei Jesus and Mary Chain, perché non riveli anche a me quel segreto?

VOTO: 8/10

 

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