Larisa dei miracoli
(Attenzione, contiene spoiler) L’ascesa è l’ultimo film di Larisa Yefimovna Shepitko, regista di grande talento prematuramente deceduta a soli 41 anni in un incidente automobilistico il 2 giugno del 1979. Nata ad Artyomovsk, Ucraina, il 6 gennaio del 1938, la Shepitko studia cinema al prestigioso VGIK di Mosca, dove, dopo aver realizzato due cortometraggi, Slepoy kukhar (1956) e Zhivaya voda (1957), e aver recitato in un paio di film, Tavriya (1960) di Yuriy Lysenko e Obyknovennaya istoriya (1962) di Nikolai Litus e Igor Zemgano, consegue il diploma in Regia Cinematografica con il suo primo lungometraggio, Calura (1963), che attraverso l’incontro-scontro tra un giovane idealista, Kemel, e il suo inflessibile e autoritario capo, Abakir, propone una folgorante metafora dell’Unione Sovietica dell’epoca. A questo notevole esordio sulla lunga distanza seguono altri quattro film e mezzo: Le ali (1966), che narra di una quarantenne direttrice scolastica, Nadezhda Petrukhina, che rimpiange gli anni in cui esercitava la professione di pilota di caccia durante la guerra; Inizio di un secolo sconosciuto (1967), una pellicola divisa in due episodi (il primo dei quali, L’angelo, è diretto da Andrey Smirnov) di cui la Shepitko firma il secondo, La patria dell’elettricità, che racconta di un intraprendente ragazzo capace di porre fine al problema della mancanza di acqua in un piccolo villaggio turkmeno; Alla tredicesima ora della notte (1969), un lavoro girato per la televisione che riprende i festeggiamenti della notte di Capodanno che segna il passaggio dal vecchio al nuovo anno; Tu e io (1971), incentrato su un chirurgo, Piotr, in crisi esistenziale e professionale che ritrova un barlume di felicità grazie all’incontro con una giovane ragazza; e infine il già citato L’ascesa (1977), il film più bello e appassionante della regista, che traspone in immagini un racconto di Vasiliy Bykov, Sotnikov, firmando anche la sceneggiatura insieme a Yuri Klepikov. Siamo sul fronte bielorusso durante la Seconda Guerra Mondiale: una coinvolgente e trascinante sequenza d’apertura ci mostra i partigiani impegnati a respingere l’avanzata delle truppe tedesche (da notare che per tutta la durata di tale scena i titoli di testa compaiono in sovrimpressione sulle immagini: sembra quasi che la regista abbia voluto diminuire l’impatto emotivo dell’incipit “distraendo” lo spettatore con le scritte).
Al termine di un cruento scontro a fuoco, i primi ripiegano in un bosco, dove li vediamo piegati in due dalla fame e dalla fatica: a peggiorare ulteriormente la loro condizione ci si mette il freddo pungente, che penetra fino alle ossa. Spossati dalla stanchezza e intirizziti dal gelo, devono inoltre risolvere il problema della mancanza di viveri, dato che la scorta di provviste di cui dispongono è quasi esaurita; per non rischiare di morire di stenti, due di loro, Rybak e Sotnikov, partono alla ricerca di cibo. Si dirigono verso la fattoria nella quale abita la fidanzata del primo, Zos’ka, ma una volta giunti a destinazione scoprono che l’abitazione è completamente abbandonata. Per non tornare indietro a mani vuote, decidono di proseguire fino a Lesiny. I loro passi sono resi più pesanti dall’abbondante neve che ricopre il paesaggio; Sotnikov, inoltre, deve fare i conti con una tosse forte e persistente che lo debilita. “Prendi un po’ di neve. Te la farà passare” gli dice Rybak. Cammin facendo si imbattono in un uomo che ha offerto aiuto ai tedeschi. “E’ un vecchio. L’ha fatto per stupidità” afferma la moglie per difenderlo, ma Sotnikov e Rybak non gli perdonano di aver dato una mano al nemico, e perciò vorrebbero ucciderlo; alla fine, però, il secondo convince il primo a risparmiare la vita all’anziano. Mentre si incamminano sulla via del ritorno incontrano i tedeschi: ne nasce uno scontro a fuoco durante il quale Sotnikov rimane colpito ad una gamba da un proiettile.
Per non essere di peso al compagno, egli medita di suicidarsi (struggente e straziante al tempo stesso la scena in cui lo vediamo togliersi lo stivale della gamba sana per tentare di premere il grilletto con il piede mentre si punta il fucile al volto), ma Rybak arriva in tempo per farlo desistere dal suo proposito. Rybak, che sembra essere dotato di uno spirito di iniziativa inesauribile, si carica l’amico sulle spalle e, seppur a fatica, i due raggiungono la casa di una donna, Demchikha, madre di tre bambini. Quest’ultima, però, li accoglie malvolentieri, perché teme che i nazisti la scoprano ad aiutare i partigiani. Lei li prega di andarsene immediatamente, ma quando Sotnikov e Rybak stanno per abbandonare il suo umile alloggio, arrivano i tedeschi. In fretta e furia i due uomini si nascondono in soffitta, ma a Sotnikov scappa uno starnuto che fa insospettire i nazisti; uno di loro sale in soffitta e punta il mitra (che la regista inquadra in primo piano, aumentando in questo modo l’effetto drammatico della scena, fino a renderla insostenibile) contro la paglia sotto la quale sono nascosti i due uomini, che, terrorizzati, non possono fare altro che arrendersi. Da quel momento per i due partigiani comincia un incubo ancora peggiore di quello che hanno vissuto fin lì. Catturati dai nazisti assieme alla donna che aveva offerto loro ospitalità, vengono sottoposti a brutali interrogatori condotti da uno spietato e malvagio inquirente della polizia, Portnov, disposto ad usare ogni mezzo a sua disposizione pur di far parlare i prigionieri. Sotnikov, però, non si lascia intimidire dalle minacce: “Non tradirò. Ci sono cose più importanti della propria pelle”. Dichiarazione alla quale Portnov reagisce con una risata sprezzante.
“Dove sono? Ma cos’è questo? Di cosa consiste? E’ una scemenza. Siete mortale. Con la morte finisce tutto. La nostra vita, noi stessi, tutto il mondo. Non ne vale la pena. Per cosa? Per essere d’esempio ai posteri? In ogni caso non morirete come un eroe. Voi non morirete. Creperete come un traditore. Non vuoi tradire? Lo farà qualcun altro. Ma diremo che sei stato tu. Chiaro?”.
“Feccia. Feccia dell’umanità” ribatte disgustato Sotnikov.
“Ora vedrete chi è veramente la feccia. Non meravigliatevi se non sono io, ma voi stesso. Scoprirete dentro di voi cose che non avreste mai immaginato. La vostra intransigenza e quel fanatismo che avete nello sguardo saranno rimpiazzati dalla paura. Proprio così. La paura di perdere la pelle. Alla fine tornerete a essere voi stesso. Una semplice nullità, pieno di merda come tutti. Senza parole elaborate e senza arroganza. E’ questa la verità. Ecco perché non potete offendermi. No. Io so chi è veramente l’uomo. E lo sapete anche voi”.
Pur di non parlare, Sotnikov sopporta ogni tipo di tortura (anche quella, terribile, di essere marchiato a fuoco). Rybak, invece, quando gli propongono di entrare a far parte del corpo di polizia in cambio di informazioni, non ci pensa due volte a tradire i propri compagni per salvarsi la pelle. Al termine degli interrogatori, i due si ritrovano in una cella fredda, buia e sporca infestata dai topi: Rybak cerca di convincere Sotnikov a collaborare con i tedeschi, ma l’idea di fare la spia a quest’ultimo non lo sfiora nemmeno.
“Che stai dicendo? Siamo dei soldati. Soldati! Se ti sporchi di merda, non te la toglierai più di dosso”.
“Allora dobbiamo finire nella fossa a nutrire i vermi. E’ così?”.
“Non è questa la cosa peggiore. Non è di questo che si tratta. Ora lo so. L’importante è avere la coscienza a posto. Allora…”.
“Sei uno stupido, Sotnikov. Ti sei anche laureato! Io voglio vivere. Vivere! Per ammazzare quelle canaglie. Hai capito? Io sono un soldato, tu sei un cadavere! Ti è rimasta solo la testardaggine. Ma quali principi!”.
“Allora vivi. Si può vivere anche senza coscienza”.
“Tu parli a me di coscienza… Chi è stato a trascinare qui me e quella donna? Tu, persona coscienziosa. Perché nella soffitta, tu che eri ferito e malato non hai alzato le mani per primo? La tua coscienza te l’ha impedito? Io le ho alzate e ti ho salvato e ho salvato il villaggio dal fuoco. La mia coscienza pensa, mentre la tua… Si deve fare quello che è necessario. E tu parli di coscienza! Possibile che non aspiri a niente? Menti. Aspiri a qualcosa. Quando eri in quel campo, speravi in qualcosa. Come vedi, l’abbiamo scampata. Proprio così. Bisogna sopravvivere”.
“Entrerai nella polizia? Allora non voglio vivere”.
“Tu, tu… Sai cosa sei? Nella fossa verrò con te a farti compagnia. Da soli fa paura”.
“Kolja”.
“Menti, carogna! Fa paura. Sotnikov! Perché hai chiuso gli occhi?”.
Al culmine della discussione, Sotnikov, sempre più indebolito e fiaccato nel fisico, tossisce sangue in faccia a Rybak, che stringe a sé l’amico in un abbraccio disperato che sa tanto di addio. In prigione con loro finiscono anche Demchikha, il vecchio a cui hanno risparmiato la vita e una bambina, Basya: il mattino del giorno successivo saranno giustiziati mediante impiccagione. Toccante ed emozionante, elegiaco e lancinante, L’ascesa – premiato con un meritato Orso d’oro al Festival Internazionale del Cinema di Berlino del 1977 – racconta una storia di estrema sofferenza, permeata da un lirismo mistico e struggente che tocca vertici di assoluta poesia. E’ un film dalla parte dei partigiani senza un filo di retorica, nel quale la regista racconta la disperata lotta per la sopravvivenza di due uomini, Sotnikov e Rybak, che nella prima parte della pellicola intraprendono un viaggio, pur essendo allo stremo delle forze, per procurarsi un bene primario senza il quale sarebbe impossibile vivere, ossia il cibo, mentre nella seconda, quando vengono catturati dai tedeschi, gli stessi si ritrovano di fronte ad una scelta: tradire i propri compagni per continuare a vivere oppure non parlare e quindi andare incontro a morte certa. Dilemma di fronte al quale Sotnikov e Rybak reagiscono in maniera differente: il primo dimostra di avere coraggio da vendere resistendo alle torture inflittegli dai nazisti; il secondo, invece, si rivela un codardo dal momento che, quando gli si presenta la possibilità di avere salva la vita in cambio di informazioni, non si fa scrupoli a vendersi al nemico, tradendo in questo modo i suoi compagni e con loro anche gli ideali per i quali si batteva con tanto ardore.
Dunque man mano che la storia procede i ruoli dei due personaggi principali si ribaltano, perché all’inizio il più forte e coraggioso sembra essere Rybak, il quale è sempre pronto a spronare Sotnikov quando assieme a questi parte alla ricerca di cibo. E anche quando Sotnikov pare continuamente sul punto di morire, è Rybak che gli fa forza sostenendolo moralmente. Sotnikov, invece, più diventa debole fisicamente e più acquisisce una forza spirituale (bellissima la scena in cui si apre la porta della prigione e il suo volto – inquadrato in primo piano – viene irradiato da una luce messianica) che gli consente di sopportare sofferenze indicibili come le sevizie a cui lo sottopongono i nazisti. Alla fine, Sotnikov diventerà un martire, Rybak un infame informatore: il primo morirà da eroe, il secondo si porterà appresso il marchio del traditore per tutta la vita (quando scamperà all’impiccagione, una donna lo chiamerà Giuda). La regista si prende rischi considerevoli ricorrendo sovente alle simbologie religiose, come nella lunga e drammatica sequenza in cui i prigionieri vengono impiccati sulla collina (e mentre percorrono la salita che li conduce al patibolo appare un bambino che, probabilmente del tutto ignaro di ciò che sta accadendo, gioca con uno slittino), che richiama alla mente la crocifissione di Gesù sul Golgota; ma la Shepitko, grazie ad uno stile magistrale che raggiunge vette di ineguagliabile purezza, riesce sempre ad uscirne a testa alta, evitando con grande abilità le trappole della retorica e della banalità. Eccellenti gli attori: Boris Plotnikov e Vladimir Gostyukhin, che interpretano rispettivamente Sotnikov e Rybak, sono entrambi eccezionali; soprattutto il primo, a cui toccava la parte più difficile, quella del malinconico e mistico artigliere pronto a sacrificare la propria vita per salvare quelle dei suoi compagni, offre una prova maiuscola.
Memorabile quando, conscio di essere prossimo alla morte, si rivolge a Portnov, che lo ha chiamato Ivanov, dicendogli con orgoglio: “No, non mi chiamo Ivanov. Mi chiamo Sotnikov. Sono un comandante dell’Armata Rossa. Sono nato nel 1917. Sono un bolscevico. Membro del partito dal 1935. Professione: insegnante. Dall’inizio della guerra ho comandato una batteria. Ve le ho suonate, canaglie. Mi chiamo Sotnikov Boris Andreevic. Ho un padre, una madre e la patria”. Da ricordare pure l’ottimo Anatoly Solonitsyn, viscido e sgradevole al punto giusto nel ruolo di Portnov, cinico e feroce aguzzino che non esista a ricorrere alla tortura pur di far parlare i prigionieri. Di grande suggestione la colonna sonora composta da Alfred Schnittke, che accompagna le poetiche immagini del film elevandone la bellezza con una musica disarmonica e piena di continue dissonanze; e stupenda la fotografia di Vladimir Chukhnov e Pavel Lebeshev, che illuminano la pellicola con uno straordinario bianco e nero in grado di passare con estrema naturalezza dai toni abbacinanti delle riprese in esterni a quelli più cupi delle scene in interni (la casa del vecchio, la prigione). L’ascesa è il capolavoro terminale di Larisa Shepitko, la cui brillante carriera è stata stroncata – come detto all’inizio – da un incidente stradale avvenuto mentre stava lavorando a un nuovo film, L’addio, poi realizzato, nel 1983, da suo marito, Elem Klimov, autore dell’angosciante Va’ e vedi (1985), anch’esso ambientato in Bielorussia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ricco di momenti indimenticabili (il bambino che assiste all’impiccagione con le lacrime agli occhi; la morte di Sotnikov filmata al rallentatore; Rybak che in preda al rimorso tenta di suicidarsi impiccandosi con una cintura), L’ascesa è un film fulgido e sconvolgente al contempo che vanta una regia perfetta (splendidi i primi piani, che raggiungono un’intensità emozionale ragguardevole). Un’opera meravigliosa, dalle ascendenze dostoevskijane, che rimane impressa in maniera indelebile nella memoria.
VOTO: 10/10
Aspettando Harry Lime
(Attenzione, contiene spoiler) Prendete un ottimo scrittore, Graham Greene, e fategli scrivere una sceneggiatura. Poi radunate un cast di prima grandezza, che comprenda attori del calibro di Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles e Trevor Howard. Dopodiché ingaggiate un grande direttore della fotografia, Robert Krasker, maestro del chiaroscuro che illumina le scene da par suo, e un talentuoso suonatore di cetra, Anton Karas, in grado di comporre una colonna sonora destinata ad entrare nell’immaginario collettivo. Infine affidate tutto questo ben di Dio a un regista capace e preparato, Carol Reed, che sa dove e come posizionare la macchina da presa e che conosce tutti i trucchi del mestiere. Se mettete insieme tutta questa bella gente, potete stare certi che otterrete qualcosa di grandioso. Nel 1949 le persone sopra citate lavorarono veramente tutte allo stesso film, e il risultato che ne scaturì fu “Il terzo uomo”, uno dei film più leggendari, citati e imitati di sempre, nonché uno dei rari casi in cui nel mondo del cinema la somma dei talenti coinvolti nella realizzazione di un film ha dato l’esito sperato. Nel cinema, infatti, non sempre uno più uno fa due, ma nel caso de “Il terzo uomo” sì, perché qui sia davanti che dietro la cinepresa c’era gente che sapeva fare il suo lavoro egregiamente e che si è impegnata a fondo per ottenere il massimo risultato possibile. C’è Joseph Cotten che interpreta uno squattrinato scrittore americano di modesti romanzi western che si improvvisa detective, Holly Martins; c’è Alida Valli (la quale nei titoli di testa viene citata solo con il cognome) che recita nei panni di un’affascinante e malinconica attrice teatrale cecoslovacca, Anna Schmidt; c’è Trevor Howard che ricopre il ruolo di un ostinato poliziotto inglese che dà la caccia ai criminali, il maggiore Calloway; e soprattutto c’è Orson Welles che presta il volto a un personaggio amorale e ambiguo giustamente entrato nel mito, Harry Lime, un cinico e spietato trafficante di penicillina che rappresenta il male in persona, che entra in scena solo a metà film ma che, nonostante compaia poco, finisce per diventare il protagonista assoluto e incontrastato della vicenda.
Anche quando non si vede, Harry è come se fosse sempre presente, dal momento che tutti parlano di lui: da Holly, il suo vecchio amico che giunge a Vienna dall’America per incontrarlo, ad Anna, la sua amante che dopo la sua morte si ritrova sola e con il cuore spezzato, passando per Calloway, che vorrebbe fargli pagare tutto il male che ha fatto e tutto il dolore che ha causato con il suo traffico illegale di penicillina sbattendolo in prigione e gettando via la chiave per sempre. Tutti parlano di Harry, dall’inizio alla fine del film. E’ lui il fulcro attorno al quale ruota tutta quanta la storia. Che sia vivo oppure morto, non importa: Harry è il centro di tutto. Lui, però, non si fa vedere, almeno nella prima parte. Si fa attendere come Godot, ma a differenza di quest’ultimo, che non arrivava mai, Harry, a un certo punto, arriva eccome. La sua entrata in scena è da antologia: dopo aver fatto credere agli altri di essere passato a miglior vita, più o meno a metà film lo vediamo comparire di notte nel buio dell’androne di un palazzo completamente vestito di nero, lui che sembrava fosse stato investito e ucciso da un’automobile e che era stato tumulato davanti agli occhi dei suoi amici, mentre un gatto gli fa le fusa e lui sorride sardonico. Un’apparizione folgorante, la sua, di quelle che lasciano il segno e che non si dimenticano più. Poi, però, dopo essere sbucato dal nulla come un fantasma, Harry sparisce di nuovo. Si nasconde nelle fogne come un topo, e in quel posto lurido e maleodorante, al termine di un lungo e spettacolare inseguimento, si compirà il suo amaro e tragico destino.
Insomma, dei quattro protagonisti, Harry Lime è quello che si vede di meno, ma è anche quello di cui si parla di più e che funge da filo conduttore tra i vari personaggi che popolano il film. Senza di lui, “Il terzo uomo” perderebbe molto del suo fascino. E’ banale e scontato dirlo, ma è la pura e semplice verità. Aveva ragione Alfred Hitchcock quando diceva che “più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”. Harry Lime è un cattivo coi fiocchi: malvagio, crudele e insensibile, la sua ombra minacciosa si allunga sinistra su tutta la pellicola. In una delle tante scene memorabili, mentre discute con Holly, Harry, con il suo tipico atteggiamento sprezzante, giustifica le sue azioni criminose con un monologo indimenticabile: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Welles è superlativo, e con la sua imponente e inquietante presenza domina il film in lungo e in largo, ma anche Cotten, Howard e la Valli sono eccellenti. Impeccabile la regia (magistrale l’uso del grandangolo), sontuosa la fotografia (per la quale Krasker vinse l’Oscar) e stupenda la colonna sonora (e pensare che Karas era alla sua prima esperienza come compositore di musica per film). E per ultimo, ma non per questo meno importante, il fascino decadente di Vienna, una città messa in ginocchio dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e divisa in quattro zone presidiate dai russi, dagli americani, dagli inglesi e dai francesi, che si rivela una location perfetta per ambientarvi una storia che parla di intrighi, delitti, traffici di medicinali e morti che ritornano. “Il terzo uomo” (premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes) è un classico intramontabile e imperdibile.
VOTO: 9/10
Lacombe Lucien
(Attenzione, contiene spoiler) Quante polemiche scatenò questo film all’epoca della sua uscita nelle sale cinematografiche. Era il 1974, e Louis Malle riuscì nell’impresa di scontentare un po’ tutti. Su “Lacombe Lucien”, infatti, piovvero critiche feroci da ogni dove: alcuni (i comunisti) rimproverarono al regista di aver mostrato che nelle fila dei collaborazionisti c’erano soltanto persone povere e umili con un livello di istruzione basso; altri (i borghesi) non mandarono giù il fatto che Malle, attraverso il personaggio di Albert Horn, sostenesse la tesi secondo la quale la borghesia aveva stretto un accordo con i cattivi; altri ancora lamentavano che la storia fosse raccontata solamente dalla parte dei collaborazionisti, quasi come se i partigiani non fossero mai esistiti; infine, ci fu anche chi accusò il regista di aver voluto motivare gli atti delinquenziali compiuti da coloro che facevano parte della Gestapo. Queste furono le principali accuse che vennero mosse al film. Da ricordare, inoltre, che nello stesso periodo l’allora Presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard d’Estaing (che da ragazzo combatté i nazisti prendendo parte ad alcune azioni sostenute dalla Resistenza), con lo scopo di riabilitare i collaborazionisti della Repubblica di Vichy, abrogò la Festa della Liberazione, suscitando in questo modo lo sdegno dei partigiani che si batterono per liberare il proprio Paese dal nazifascismo. Detto del vespaio provocato dalla pellicola in questione, occorre dire che stiamo parlando di un grande film, che ha superato indenne la prova del tempo, tanto da meritare di essere collocato nelle prime posizioni dell’ideale classifica dei migliori lavori dell’autore di perle come “Ascensore per il patibolo” (1958) e “Fuoco fatuo” (1963). Di quest’opera che rifiuta l’enfasi puntando su una messa in scena realistica molto efficace, colpiscono la maestria e la sincera pietas con cui Malle narra la (breve) vita di un ragazzo diciassettenne, Lucien Lacombe, originario di un paesino nei pressi del confine spagnolo, Souleillac, che nel giugno del 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale, nella Francia occupata dai nazisti, lavora come uomo delle pulizie in un ospizio.
Avendo a disposizione cinque giorni di ferie, egli decide di tornare a casa dalla madre, che risiede in una fattoria in campagna. In assenza del padre, arrestato e imprigionato dai tedeschi, nell’abitazione si sono stabiliti alcuni senza tetto, che ricambiano l’ospitalità dando una mano al proprietario della cascina, con il quale la mamma del ragazzo ha una relazione. Lucien ha un carattere scostante, è un tipo rozzo, dai modi bruschi e scontrosi, ed è sempre insofferente a tutto ciò che lo circonda, in particolare nei confronti del suo lavoro che non lo soddisfa affatto, perché lo trova umiliante, motivo per cui vorrebbe licenziarsi, intenzione che comunica alla propria genitrice. Mentre è a casa passa il tempo nei boschi a cacciare gli animali, che uccide con gusto sadico, colpendoli con la fionda o con il fucile, quasi come se per lui la caccia fosse un gioco da cui trarre divertimento. Indeciso su cosa fare del proprio futuro, il ragazzo prova ad entrare nella Resistenza contattando il maestro di una scuola, Peyssac, che però lo respinge perché troppo giovane. Una sera, dopo essersi recato in bicicletta nel paese dove si trova la casa di riposo presso la quale lavora, mentre percorre la via del ritorno, Lucien buca una ruota, il che lo porta, senza rendersene conto, a violare il coprifuoco. Nel momento in cui cerca di tornare a casa a piedi, vede una macchina e di nascosto la segue incuriosito. Il pedinamento lo conduce all’Hotel Des Grottes: invitato ad entrare, Lucien beve come una spugna.
Completamente ubriaco, cade in un sonno profondo: quando si sveglia il mattino successivo scopre che quell’albergo è la sede degli ausiliari della polizia tedesca, i quali, durante la notte, grazie alla soffiata involontaria di un brillo Lucien, hanno arrestato Peyssac, colui che aveva negato al giovane il permesso di entrare nel gruppo di partigiani di cui egli è a capo. Quando gli ausiliari gli propongono di arruolarsi nella polizia tedesca, Lucien accetta l’offerta senza esitazioni. Benché non si renda conto fino in fondo di ciò che sta facendo, egli diviene un collaborazionista. Nel gruppo di questi ultimi vi è un nobile che risponde al nome di Jean-Bernard de Voisins, di cui Lucien invidia lo stile di vita gaudente ed esibizionista, fondato sulla continua ricerca del piacere. Jean-Bernard, dal canto suo, sembra prendere in simpatia il ragazzo e lo accompagna da un sarto ebreo, Albert Horn, per fargli fare un vestito su misura. Albert è costretto a pagare il nobile per non essere denunciato alla polizia, e ha una figlia, France, di cui Lucien si innamora a prima vista. Il padre della ragazza, però, non vede di buon occhio la loro relazione, per il semplice motivo che non vuole che sua figlia si metta assieme a uno sporco e infame collaborazionista. Stregato dal fascino di France, Lucien va e viene dall’appartamento in cui la ragazza dimora insieme al genitore e alla nonna a suo piacimento, come se fosse casa sua. Lucien ama France alla follia, ma lei pare frequentarlo unicamente perché costretta con la forza. Giacché teme che se lasciasse il suo fidanzato egli si vendicherebbe facendo arrestare suo padre, France sopporta tutto, anche le umiliazioni pubbliche, come quando viene tacciata di essere ebrea mentre partecipa ad una festa all’Hotel Des Grottes.
Sebbene ella faccia il possibile per proteggere suo papà, questi viene arrestato comunque. Venuto a conoscenza del fatto, Lucien accoglie la notizia con freddezza, come se la cosa non lo riguardasse minimamente, tanto che non fa nulla per aiutare l’uomo. Nel frattempo la situazione precipita: i partigiani assaltano l’hotel della Gestapo e uccidono tutti i membri del corpo di polizia presenti nell’edificio tranne Lucien, che si salva per caso, solo perché durante l’azione promossa dagli uomini della Resistenza era chiuso in una stanza a sorvegliare un prigioniero. In risposta all’attacco subito, la polizia tedesca intensifica i rastrellamenti ai danni della popolazione ebraica. A farne le spese sono France e sua nonna, che vengono arrestate proprio da Lucien, il quale, ancora una volta, agisce con impassibilità, eseguendo gli ordini dei suoi superiori come se fosse un automa. Mentre conduce i due prigionieri fuori dal loro alloggio, all’improvviso il ragazzo si ribella e ammazza l’ufficiale tedesco che era con lui sparandogli alle spalle, dopodiché scappa con la sua ragazza e la di lei nonna verso la Spagna. Prima di arrivare al confine, i tre si rifugiano in un cascinale abbandonato, dove passano qualche giorno di relativa tranquillità. Immersi nel verde e nella pace della campagna, lontano dai tumulti della guerra, France e Lucien paiono felici, ma è solo un’illusione effimera: il 12 ottobre del 1944, il ragazzo scoprirà a proprie spese quanto caro possa costare subire la fascinazione del male.
Antiretorico e antispettacolare, splendidamente fotografato da Tonino Delli Colli, autore di una fotografia dai toni sfumati e crepuscolari che cattura magnificamente l’atmosfera dei paesaggi agresti in cui si svolge la storia, girato con uno stile semidocumentaristico che ne accresce la forza, “Cognome e nome: Lacombe Lucien” (nominato agli Oscar come Miglior Film Straniero nel 1975) è un lucido e severo ritratto di un ragazzo confuso al punto da aver smarrito le coordinate per muoversi in un mondo dominato dalla follia generata dal Secondo Conflitto Mondiale. Lucien proviene da una modesta famiglia di contadini, e la guerra ha fatto irruzione nella sua vita portandogli via suo padre proprio quando egli, adolescente allo sbando, avrebbe avuto maggiormente bisogno della figura paterna. La sua esistenza misera e totalmente priva di soddisfazioni e di entusiasmo contribuisce ad acuire il suo malessere esistenziale: si guadagna da vivere svolgendo un lavoro degradante, che odia con tutte le sue forze, e si sente un essere inferiore, ragione per la quale ha difficoltà a relazionarsi con gli altri; vorrebbe elevare il proprio stile di vita e, non trovando alternative, pensa che il modo più facile per riscattarsi socialmente sia quello di diventare un membro della Gestapo. Non essendo in grado di discernere cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa sia buono e cosa cattivo, subisce passivamente l’influsso della perversa ideologia nazista: egli si unisce alla Gestapo solo perché attratto dalla bella vita che conducono i suoi affiliati, fregandosene quindi altamente delle attività criminali operate da questi ultimi.
Il suo è un gesto di ribellione, un atto impulsivo dettato dall’ignoranza e dalla rabbia: per Lucien vendersi al nemico è un modo come un altro per far capire agli altri che al mondo esiste pure lui. Quando (forse) comprenderà di aver sbagliato tutto, tenterà di riscattare i propri errori, ma sarà troppo tardi: il suo destino è ormai segnato, e per quanto egli cerchi di rimediare ai suoi sbagli, si ritroverà a pagare a caro prezzo le proprie scelte scellerate. Quello di Lucien è un personaggio ambiguo e contraddittorio (malgrado faccia parte della Gestapo, si innamora follemente di una ragazza ebrea), che Malle (che firma la sceneggiatura a quattro mani con Patrick Modiano) tratteggia alla perfezione, mostrandocene tutti i difetti evitando però al contempo di esprimere giudizi sulle sue azioni, compito che il cineasta lascia allo spettatore. La regia è attenta alle minime sfumature e, mediante lunghi piani sequenza e fluide carrellate, ricostruisce con precisione millimetrica e con grande tensione narrativa e morale il difficile periodo storico in cui è ambientato il film. Valido il cast: Pierre Blaise e Aurore Clément, entrambi esordienti, prestano il volto rispettivamente all’incolto e ribelle Lucien e alla dolce e sensibile France; da segnalare anche le ottime prove di Holger Löwenadler, che recita nei panni di Albert Horn, il sarto ebreo che va incontro a un destino tragico, e Thérèse Giehse, che interpreta Bella Horn, la nonna di France. Bellissime le sequenze iniziali e finali. Egregia la colonna sonora di Django Reinhardt.
VOTO: 8/10