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Storie di fantasmi giapponesi

La locandina di "Kwaidan"

La locandina di “Kwaidan”

Alcuni film sono talmente innovativi da riuscire a sfuggire ad ogni tipo di classificazione. Una delle cose più belle del cinema è che quando crediamo di aver visto tutto, e perciò pensiamo che ormai non ci sia più niente in grado di sorprenderci veramente, improvvisamente ci capita di imbatterci in un film che ci smentisce clamorosamente, dimostrandoci così che nel mondo del cinema tutto è possibile e che si può sempre inventare qualcosa di nuovo che ha il potere di lasciare lo spettatore a bocca aperta. E di fronte alla bellezza e alla grandezza di questa pellicola diretta da Masaki Kobayashi, regista di capolavori come “Harakiri” (1962) e “L’ultimo samurai” (1967), si rimane davvero senza parole. “Kwaidan” (1964) è un horror straordinario, al punto che mai come in questo caso la definizione di horror appare quantomeno riduttiva. Perché in questa folgorante pellicola Kobayashi riesce a trascendere il genere fino ad arrivare a realizzare qualcosa di realmente unico e assoluto (le scene di battaglia del terzo episodio sono le più originali che si siano mai viste). Ispirandosi ai racconti di Koizumi Yakumo (scrittore greco di origine irlandese, nato come Lafcadio Hearn, che si trasferì in America in giovane età, per poi emigrare successivamente in Giappone, dove si naturalizzò con il sopracitato nome), Kobayashi mette in scena quattro episodi incentrati su altrettante storie di fantasmi. Nel primo, “I capelli neri”, un samurai (Rentaro Mikuni) ritorna dalla moglie (Michiyo Aratama) che aveva abbandonato: i due passano la notte insieme, ma al mattino successivo lui avrà una brutta sorpresa. Nel secondo, “La donna della neve”, due taglialegna, il vecchio Mosaku (Jun Hamamura) e il giovane apprendista Minokichi (Tatsuya Nakadai), dopo una dura giornata di lavoro passata a tagliare piante in un bosco, mentre si incamminano sulla strada di casa, vengono sorpresi da una tormenta di neve, a causa della quale sono costretti a rifugiarsi in una baracca sulla riva di un fiume; soltanto uno dei due riuscirà ad uscirne vivo. Nel terzo, ”Hoichi-senza-orecchie”, un giovane musicista cieco che suona la biwa, Hoichi (Katsuo Nakamura), rievoca le gesta della celebre e cruenta battaglia navale che si svolse a Dan-no-ura, nello stretto di Shimonoseki, nella quale si scontrarono i clan Heike e Genji; essendo non vedente, il ragazzo non si rende conto che è proprio per i fantasmi dei combattenti appartenenti al primo clan che ricorda il conflitto nel quale questi perirono sotto i potenti colpi dei rivali.

Keiko Kishi

Keiko Kishi

Nel quarto, ”In una tazza di tè”, nel primo giorno del quarto anno dell’era Tenwa, un samurai, Kannai (Kanemon Nakamura), al servizio del nobile Nakagawa Sado, mentre il reggimento di cui fa parte effettua una sosta al tempio di Hongo, si ritrova ossessionato dalla presenza di un uomo, Shikibu Heinai (Noboru Nakaya), di cui ha inghiottito lo spirito. Servendosi dell’ottima sceneggiatura di Yoko Mizuki, che delinea i caratteri dei personaggi in modo irreprensibile, Kobayashi gira un film di centosettantacinque minuti composto da quattro episodi autonomi e dalla durata variabile (il più lungo è il terzo, il più breve il quarto), in cui amore, morte, solitudine e follia si rincorrono senza soluzione di continuità. Attraverso uno stile di regia ricco di affascinanti e fluidi movimenti di macchina, il regista riesce a creare un’atmosfera magica e spettrale allo stesso tempo che incanta e inquieta profondamente lo spettatore. Introdotto da titoli di testa che da soli valgono la visione, continuamente in bilico tra realtà e incubo, “Kwaidan” (vincitore, nel 1965, del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e nominato agli Oscar, nel 1966, come Miglior Film Straniero), tra porte che si aprono da sole e chiome di capelli che fluttuano nell’aria, tra cieli che sembrano avere mille occhi e lugubri cimiteri popolati da spiriti, è un film mirabile, stupefacente, allucinato e allucinante, che si avvale di immagini sbalorditive che emanano una forza poderosa e un fascino rapinoso anche per merito delle magistrali e suggestive scenografie create da Shigemasa Toda e dell’incredibile e meravigliosa fotografia di Yoshio Miyajima (il secondo e il terzo episodio stupiscono per inventiva scenografica ed eleganza estetica). Da menzionare pure il fondamentale contributo del grande Toru Takemitsu, autore della splendida colonna sonora: la sua musica ipnotica è perfetta per sottolineare lo smarrimento progressivo che coglie i protagonisti delle varie storie, contribuendo in tal modo ad acuire l’inquietudine che pervade l’intera pellicola. Immaginifico, geniale, visionario, folle: “Kwaidan” fa parte di quella ristretta cerchia di film che, una volta visti, non si dimenticano più. Un’opera solenne e imperdibile.

VOTO: 10/10

 

Il buio nella mente

La locandina di "Repulsion"

La locandina di “Repulsion”

Dalla barca de “Il coltello nell’acqua” (1962) fino al teatro di “Venere in pelliccia” (2013), passando per l’abitazione di “Repulsion” (1965), il castello di “Cul-de-sac” (1966), il maniero di “Per favore non mordermi sul collo” (1967), lo stabile di “Rosemary’s Baby” (1968), il palazzo di “L’inquilino del terzo piano” (1976), la nave da crociera di “Luna di fiele” (1992), il cottage di “La morte e la fanciulla” (1994) e l’appartamento di “Carnage” (2011), Roman Polanski, classe 1933, nel corso della sua lunga e gloriosa carriera ha ampiamente dimostrato di essere perfettamente a suo agio nei set claustrofobici. E conoscendo questa sua predilezione per gli spazi chiusi, aumenta il rammarico per il fatto che egli non abbia mai ricavato una trasposizione cinematografica da “La metamorfosi” di Franz Kafka. Pensate un po’ a che film poteva uscire dal geniale testo dell’autore praghese, soprattutto se Polanski lo avesse realizzato nel suo periodo di forma migliore, ossia negli anni Sessanta e Settanta. Probabilmente ne sarebbe venuto fuori un capolavoro, o giù di lì. “Repulsion” è il secondo lungometraggio del regista polacco (il primo era “Il coltello nell’acqua”, uno degli esordi più fulminanti di tutti i tempi), e racconta l’inquietante storia di una giovane e affascinante estetista belga, Carol Ledoux (Catherine Deneuve), che soffre di dissociazione mentale e che risiede a Londra in un appartamento in affitto insieme alla sorella maggiore, Helen (Yvonne Furneaux), la quale ha una relazione sentimentale con un uomo sposato, Michael (Ian Hendry). Quando questi ultimi due decidono di andare in vacanza in Italia per una decina di giorni, Carol rimane a casa da sola, e la solitudine acuisce la sua schizofrenia a tal punto da farla sprofondare nella follia più totale. Fin dal folgorante incipit, in cui la cinepresa inquadra in primo piano l’occhio della Deneuve su cui compaiono i titoli di testa, con la scritta “Directed by Roman Polanski” che simula il taglio del bulbo oculare dell’attrice francese (un evidente omaggio alla celeberrima sequenza di apertura di “Un chien andalou”, 1929) con un movimento orizzontale da destra verso sinistra, capiamo due cose: la prima è che ci troviamo di fronte a un film superbo; la seconda è che Carol, quando l’inquadratura si allarga e vediamo il suo viso per intero, ha qualcosa che non va.

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Quel suo sguardo perso nel vuoto, infatti, non fa presagire nulla di buono, e nel giro di circa cento minuti avremo la conferma che avevamo ragione a sospettare che dietro agli occhi spenti della ragazza si celasse qualcosa di preoccupante. In trasferta in Inghilterra, Polanski (che oltre a sceneggiare a quattro mani con Gérard Brach appare brevemente nelle vesti di un suonatore di cucchiai) tratteggia un ritratto scioccante di una donna schizofrenica che odia gli uomini fino alla repulsione (da qui il titolo del film), e grazie alla straordinaria mobilità della macchina da presa, che si muove sempre sicura, dimostra come si possa fare cinema di altissimo livello all’interno di un appartamento, e quando si sofferma sul volto catatonico di Carol, è come se ci invitasse a penetrare negli oscuri meandri della mente malata della protagonista, la quale soffre di terribili allucinazioni (si immagina che le crepe squarcino i muri della sua casa e che dalle pareti escano delle braccia umane) e improvvisi attacchi di catalessi (come quando, nel memorabile inizio, fissa un punto indefinito davanti a sé tenendo nella sua mano quella di una cliente del centro estetico per cui lavora). La fotografia in bianco e nero di Gilbert Taylor crea un’atmosfera minacciosa, ben sottolineata dalle musiche di Chico Hamilton, e Catherine Deneuve, che interpreta con notevole intensità un ruolo complesso e sfaccettato, non è mai (più) stata così brava e convincente, nemmeno quando ha lavorato con quel genio di Luis Buñuel in “Bella di giorno” (1967) e in “Tristana” (1970).

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Sospeso tra realtà e immaginazione, attraversato da una tensione costante e pervaso da una profonda inquietudine, “Repulsion” (vincitore, nel 1965, dell’Orso d’argento al Festival di Berlino) è un film macabro e disturbante, ricco di momenti agghiaccianti (ne citiamo uno per tutti: l’omicidio compiuto a colpi di rasoio), che oscilla magistralmente tra il thriller e l’horror e che, mediante un crescendo drammatico esemplare, avviluppa lo spettatore in un vortice senza via d’uscita. Le scene indimenticabili sono tante, elencarle tutte sarebbe noioso, perciò ci limitiamo a ricordare quella in cui Carol parla con una sua collega che le dice di essersi divertita un mondo a vedere al cinema un film diretto e interpretato da Charlie Chaplin in cui quest’ultimo aveva talmente tanta fame da mangiare una scarpa, e in cui c’era un omone grande e grosso, anch’egli terribilmente affamato, che scambiava Charlot per una gallina (nella scena in questione il titolo del film di Chaplin non viene menzionato, ma è superfluo dire che si tratta di “La febbre dell’oro”, 1925). E’ probabile che Robert Altman si sia ispirato a questo magnifico film di Polanski quando, nel 1972, ha girato “Images”, un eccellente thriller psicologico con venature fantasy e horror che narra una vicenda per certi versi analoga a quella di “Repulsion”, così come è probabile che lo Stephen King di “Shining”, nel 1977, abbia preso dal suddetto film di Altman l’idea di ambientare in un luogo isolato (nel caso del romanziere un hotel, in quello del cineasta una casa di campagna) una storia che racconta di una graduale discesa nella paranoia. E per chiudere il cerchio delle somiglianze, la prodigiosa pellicola che Stanley Kubrick, nel 1980, ha tratto dal romanzo dello scrittore di Portland si conclude con una scena molto simile a quella con cui termina “Repulsion”. Com’è che diceva Pablo Picasso? “I mediocri imitano, i geni copiano”.

VOTO: 9/10

Nel labirinto della mente

La locandina di "Images"

La locandina di “Images”

Prendendo spunto da un racconto di Susannah York, “In Search of Unicorns” (che l’attrice pubblicherà nel 1973), nel 1972 Robert Altman realizza il film più sperimentale e anomalo di tutta la sua carriera: “Images”. Generalmente non viene considerato tra i lavori migliori del cineasta americano, ed è un peccato, perché stiamo parlando di un thriller psicologico davvero notevole e molto sottovalutato (soprattutto da Morando Morandini e Paolo Mereghetti, che nei loro dizionari gli hanno affibbiato voti piuttosto bassi che non rendono giustizia alla bellezza della pellicola) che scava in profondità nella psiche disturbata di una donna che progressivamente scivola nella follia. Cathryn è giovane, fa la scrittrice ed è sposata con Hugh (che nella versione italiana, non si sa bene per quale motivo, diventa Bob; misteri del doppiaggio). Un giorno, mentre è a casa da sola, inizia a ricevere strane telefonate in cui una voce femminile la informa che suo marito la tradisce con un’altra donna. Quando torna a casa, Hugh capisce che sua moglie è in preda a un forte esaurimento nervoso, perciò le propone di andare ad abitare per un po’ di tempo in un cottage immerso nel verde e nel silenzio della campagna irlandese. Lì, lontano da tutto e da tutti, lui intende dedicarsi alla caccia, lei, invece, alla stesura del libro a cui sta lavorando, “In Search of Unicorns”. In quell’abitazione isolata e priva di telefono, i due coniugi riceveranno la visita di un uomo, Marcel, accompagnato da sua figlia, Susannah, e Cathryn si ritroverà a dialogare con un fantasma, René. Altman (anche sceneggiatore) si affida a una messa in scena cupa ed enigmatica e costringe lo spettatore ad entrare nella mente malata di Cathryn, la quale, in un crescendo narrativo vertiginoso, confonde la realtà con l’immaginazione e viceversa. Guardando il film, a volte è difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è frutto della fantasia della protagonista; i piani narrativi si sovrappongono e si intersecano con una fluidità stupefacente, e il regista riesce a mescolare le carte in tavola con l’abilità di un giocatore professionista.

Susannah York

Susannah York

Nessun trucco e nessun inganno però, solo tanta maestria registica (i piani sequenza e le zoomate sono di una precisione millimetrica) e un uso sapiente della tecnica dell’overlapping, con le voci che si accavallano una sopra l’altra, e delle scenografie (curate da Leon Ericksen), con la casa di campagna, in cui si svolge gran parte della storia, e il paesaggio che la circonda che sembrano usciti direttamente da un film dell’orrore. Altman, in forma smagliante, firma un’opera angosciante e labirintica, nevrotica e claustrofobica, che si situa a metà strada tra Roman Polanski (per le similitudini con “Repulsion”, 1965, che narra anch’esso di una donna che soffre di schizofrenia) e Ingmar Bergman (per l’introspezione psicologica del personaggio principale) e che abbraccia generi diversi, dall’horror al thriller passando per il fantasy, formando un dedalo inestricabile in cui è facile perdere l’orientamento. “Images” è un incubo ad occhi aperti, è una lenta e inesorabile discesa negli abissi dell’inconscio che turba e sconvolge profondamente. La suspense e la tensione reggono dall’inizio alla fine senza cedimenti, e gli attori, a cominciare dall’eccezionale Susannah York (Cathryn), attorniata da un coro di ottime spalle composto da René Auberjonois (Hugh), Marcel Bozzuffi (René), Hugh Millais (Marcel) e Cathryn Harrison (Susannah), si calano benissimo nei loro ruoli. Pregevole l’apporto del reparto tecnico: l’ossessiva e straniante colonna sonora di John Williams e del percussionista Stomu Yamash’ta, la fotografia dai colori autunnali di Vilmos Zsigmond e il montaggio vorticoso di Graeme Clifford (che procede per analogie, come quando passa dall’acqua che scende dalla doccia a quella che scende dalla cascata) si rivelano fondamentali per l’esemplare riuscita del film. Incastonato tra due perle del calibro di “McCabe and Mrs. Miller” (1971) e “The Long Goodbye” (1973), “Images” è un puzzle complesso e articolato le cui tessere si incastrano alla perfezione. Per la sua intensa e magistrale prova, l’incantevole Susannah York vinse il Prix d’interprétation féminine al venticinquesimo Festival di Cannes.

VOTO: 8/10

Un cane di nome Buck

La copertina de "Il richiamo della foresta"

La copertina de “Il richiamo della foresta”

Il cane, si sa, è il miglior amico dell’uomo. Purtroppo, però, non sempre l’uomo è il miglior amico del cane. E’ questa la lezione che Buck, il cane protagonista de “Il richiamo della foresta” di Jack London, impara sulla propria pelle. Buck, che ha quattro anni e pesa sessantotto chili, è figlio di un San Bernardo, Elmo, e di una cagna da pastore scozzese, Step, e vive nella lussuosa e sconfinata magione del giudice Miller, dove passa le giornate facendo compagnia al suo padrone e alla di lui famiglia. In quella casa, Buck viene trattato come un re, ma la sua tranquilla e agiata esistenza è destinata a cambiare radicalmente quando, una notte, uno dei giardinieri che lavorano nell’abitazione del giudice, Manuel, che ha il vizio di spendere i soldi del suo magro stipendio nel gioco del lotto cinese, lo rapisce per venderlo a un losco individuo. E così Buck, dopo essere stato costretto ad affrontare un lungo viaggio, finisce in Alaska, lui che non ha mai visto la neve in vita sua, dove si ritrova a fare il cane da slitta per due corrieri, Perrault e François. Gli esseri umani non fanno una bella figura, in questo stupendo racconto di London. Tranne qualche eccezione (come il giudice Miller e il cacciatore John Thornton), l’uomo si rivela un essere spregevole che non si fa nessuno scrupolo a maltrattare gli animali infliggendo loro atroci sofferenze. La simpatia dell’autore, naturalmente e giustamente, è tutta per Buck, il cane che di punto in bianco si vede stravolgere la vita e che, dopo aver imparato “la legge del bastone e della zanna”, dimostra di avere un coraggio da leone e una volontà di ferro che gli consentono di farsi rispettare dai suoi simili e anche di resistere a condizioni ambientali estreme come quelle che si trovano in Alaska. La figura di Buck si staglia imponente su tutte le altre, tanto da dominare incontrastata le pagine del libro, e la sua epica e commovente vicenda, raccontata da London con uno stile incisivo e privo di fronzoli, arriva a toccare il cuore del lettore attraverso una serie di momenti struggenti che farebbero piangere anche i sassi. Appassionante romanzo di avventura, coinvolgente storia di sopravvivenza, maestoso inno alla natura, alla libertà e alla convivenza civile tra uomini e animali, “Il richiamo della foresta” è una lettura obbligata.

VOTO: 10/10

Arthur e la follia della guerra

La locandina di "Per il re e per la patria"

La locandina di “Per il re e per la patria”

(Attenzione, contiene spoiler) Qual è il film antimilitarista più bello di tutti i tempi? “All’ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone, “La grande illusione” (1937) di Jean Renoir, “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick, “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) di David Lean, “L’arpa birmana” (1956) di Kon Ichikawa, “E Johnny prese il fucile” (1971) di Dalton Trumbo, “Il grande uno rosso” (1980) di Samuel Fuller, o “La sottile linea rossa” (1998) di Terrence Malick? Ognuno può scegliere quello che preferisce, ma nella rosa dei canditati al titolo di Miglior Film Antimilitarista della Storia del Cinema non può di certo mancare “Per il re e per la patria” (1964) di Joseph Losey. Basandosi su un testo teatrale di John Wilson, “Hamp”, il cui adattamento cinematografico è stato curato da Evan Jones, il regista americano trapiantato in Inghilterra per sfuggire al maccartismo racconta la vicenda di un giovane soldato britannico, il ventitreenne Arthur James Hamp, che nel 1917, a Passchendaele, durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver combattuto per tre anni, rischia di essere fucilato per diserzione. Arthur, visibilmente scosso, dice che voleva andare il più lontano possibile dai cannoni; l’ufficiale incaricato di difenderlo nel processo, il capitano Charles Hargreaves, prima lo tratta con sufficienza e disprezzo (nel corso del loro colloquio gli ricorda che quando si parla con un ufficiale è necessario stare sull’attenti), poi inizia a provare pietà per lui e decide di impegnarsi per scagionarlo. Hargreaves sostiene che quando Arthur si è allontanato dal suo reparto non si rendeva perfettamente conto di quello che stava facendo perché aveva subito uno shock da esplosione: “L’imputato, quando ha compiuto gli atti per i quali è processato, non era responsabile delle sue azioni. Questa corte è responsabile delle sue azioni, ha pieno dominio di se stessa, questa corte sa benissimo quello che fa, questa corte ha dunque piena facoltà di scelta. Il soldato Hamp non è un bugiardo, non ha la parola né la risposta facile, ha un’onestà disarmante che fa di lui un pessimo testimone di se stesso.

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Tom Courtenay e Dirk Bogarde

Avrebbe potuto spararsi in una gamba e rischiare non più di qualche mese di prigione. Ha anche detto di averci pensato, ma non lo fece, restò. Un disertore che ha piena coscienza di quello che fa scappa via soltanto per salvare la pelle e lascia i suoi compagni a combattere e a morire per lui, ma quest’uomo non è un disertore, è un volontario. Vero che si arruolò perché fu sfidato a farlo dalla moglie e dalla suocera, ma non importa, si arruolò. E’ stato al fronte per tre anni, più a lungo, se mi è permesso dirlo, di alcuni di noi. Le ha viste tutte. Un uomo non può sopportarne tante, tanto sangue, tanto sudiciume, tanti morti. In quella buca di granata credette di annegare nel fango e che la sua ora fosse venuta. Dopo di allora non è stato più responsabile delle sue azioni, non ha saputo più discernere tra quello che doveva e non doveva fare. Dentro di lui non sentì che un impulso, l’impulso di camminare, di andare a casa, di andare lontano dai cannoni. La loro voce per noi è diventata un fatto abituale, tanto che ormai non ci chiediamo quasi più perché sparino. Siamo da tanto in guerra, siamo così abbruttiti da averlo dimenticato; ma non lottiamo forse per salvaguardare un principio di onestà, per un principio di giustizia, per dare a tutti i tribunali come questo il diritto di decidere? Ricordo a questa corte che se non si rende giustizia anche a un uomo solo, allora tutti gli altri muoiono invano”. L’accorata arringa del capitano, però, non può ribaltare una sentenza che sembra già scritta: Arthur, infatti, è riconosciuto colpevole di diserzione e condannato a morte mediante fucilazione.

Dirk Bogarde e Peter Copley

Dirk Bogarde e Peter Copley

Per provare quanto sia folle, inutile e insensata la guerra, Losey ricorre a una messa in scena cupa e claustrofobica in cui gli spazi chiusi amplificano il disagio fisico e mentale dei militari costretti a combattere come degli automi. Se uno di loro mostra segni di cedimento psichico, i dottori pensano che sia un pusillanime e che stia fingendo per essere esentato dai suoi doveri di soldato, cosa che succede al povero Arthur, un umile calzolaio arruolatosi volontario “per il re e per la patria” (così dice lui stesso al capitano quando questi gli chiede per quale motivo abbia deciso di entrare nell’esercito) e per dimostrare alla moglie e alla suocera di essere abbastanza coraggioso da partire per il fronte, che finisce per pagare con la vita la sua innocente camminata per trovare un po’ di pace e tranquillità lontano dagli orrori del conflitto (notevole il lavoro sul sonoro, con i cannoni che rimbombano sullo sfondo per tutto il film). “Siamo degli assassini” dice Hargreaves, che con queste parole esprime al colonnello tutto il suo disgusto per la sentenza: “Fucilate un povero imbecille perché ha fatto una passeggiata. Questo e niente altro. Tecnicamente ha disertato, ma in realtà è stata solo una passeggiata. E lei lo sa bene, vero?”. Arthur viene punito oltre misura in base all’aberrante logica del “punirne uno per educarne cento”. Secondo coloro che occupano i piani alti della gerarchia militare è lecito giustiziare un soldato che ha fatto una semplice camminata allo scopo di dissuadere i suoi commilitoni dal fare altrettanto.

Una scena del film

Una scena del film

La scena della fucilazione è sconvolgente: Arthur non viene ucciso dal plotone di esecuzione, ma da colui che aveva cercato in tutti i modi di sottrarlo alla pena di morte, ossia il capitano Hargreaves, che gli spara un colpo di pistola in bocca ponendo così fine a una storia tragica e assurda allo stesso tempo. Avvalendosi della splendida fotografia di Denys N. Coop, che immerge le scene nell’oscurità di un bianco e nero buio come la notte, e delle fondamentali scenografie di Richard MacDonald e Peter Mullins, che ricreano in studio la squallida trincea, trasformata in un acquitrino dalla pioggia che cade incessante, in cui si svolge l’azione, Losey, senza un briciolo di retorica e senza scivolare mai nel didascalico, grazie a una narrazione stringata e a un ritmo che non conosce pause, attraverso calibrati movimenti di macchina e intensi primi piani che scrutano gli abissi dell’anima umana, lancia un grido contro la guerra, che non produce vincitori ma solo vinti (“Tutti abbiamo perso” afferma Hargreaves), e realizza un’opera di straordinaria fattura, allucinante e coinvolgente, tesa e appassionante, impreziosita da un cast eccellente, in cui spiccano le encomiabili prove di Tom Courtenay (Arthur James Hamp) e Dirk Bogarde (Charles Hargreaves). Nel 1964 “Per il re e per la patria” passò in Concorso al Festival di Venezia, ma la giuria, presieduta da Mario Soldati, assegnò il Leone d’oro a “Il deserto rosso” (1964) di Michelangelo Antonioni, un film bello ma inferiore a quello di Losey. Tom Courtenay venne premiato con la Coppa Volpi per la Miglior Interpretazione Maschile, ma anche Dirk Bogarde avrebbe meritato altrettanto.

VOTO: 10/10

Dersu Uzala: piccolo grande uomo

La locandina di "Dersu Uzala"

La locandina di “Dersu Uzala”

(Attenzione, contiene spoiler) In questo straordinario film di Akira Kurosawa c’è una scena talmente bella ed emozionante che da sola basterebbe a giustificare l’esistenza di questa prodigiosa opera: è la lunga sequenza in cui i due protagonisti – un cacciatore mongolo, Dersu Uzala, e un ufficiale dell’esercito russo, Vladimir Arseniev – si perdono negli sterminati spazi della Siberia. Rimasti soli sulle acque ghiacciate del lago Hanka, vicino al confine con la Cina, li vediamo affannarsi in mezzo al nulla alla disperata ricerca della direzione che hanno seguito per arrivare fin lì. Mentre provano, senza successo, a ritrovare la via giusta per uscire da quel posto, che nel frattempo sembra essersi trasformato in una prigione a cielo aperto, il cacciatore capisce che sta per scatenarsi una bufera. Sempre più preoccupato da quello che potrebbe accadere da un momento all’altro, Dersu avverte l’ufficiale del pericolo imminente che debbono affrontare. Fortunatamente, il cacciatore ha la provvidenziale e geniale idea che potrebbe salvarli entrambi: costruire una piccola capanna ammucchiando uno sopra l’altro dei fili d’erba, che però debbono provvedere a tagliare correndo come dei pazzi per anticipare l’arrivo della tormenta. Senza perdere ulteriore tempo, i due cominciano immediatamente a tagliare i pochi fili d’erba che offre l’aspro paesaggio che li circonda: solo che mentre Dersu corre instancabilmente come fosse dotato di una forza inesauribile, l’ufficiale sviene stremato dalla fatica proprio quando sta per arrivare la tempesta. Per sua fortuna, però, ci pensa il cacciatore a salvarlo: grazie allo straordinario spirito di iniziativa di cui è dotato, Dersu da solo riesce – nonostante le forti raffiche di vento e il progressivo e minaccioso avanzare del buio – a costruire l’improvvisata ma efficace capanna all’interno della quale entrambi possono trovare riparo dalla bufera. Al suo risveglio, Arseniev ringrazia Dersu per avergli salvato la vita: “Grazie, Dersu; come avrei fatto senza di te?” “Insieme noi va, insieme noi lavora; non serve grazie” questa la disarmante risposta del cacciatore.

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Yuri Solomin e Maksim Munzuk

Dopo essere scampati alla furia della tormenta, tra i due uomini sboccerà una sincera e profonda amicizia che li legherà per sempre. Ci sembrava doveroso raccontare per filo e per segno questa meravigliosa e impressionante scena, ricca di tensione e commozione, in cui Kurosawa dà fondo a tutto il suo immenso talento per mostrarci come nasce l’amicizia tra Dersu Uzala (interpretato da un bravissimo Maksim Munzuk), il cacciatore mongolo piccolo di statura ma con un cuore grande e generoso, e Vladimir Arseniev (un ottimo Yuri Solomin), l’ufficiale russo che nel 1902 si reca in Siberia per effettuare dei rilevamenti topografici. Questa formidabile opera (tratta da due libri del suddetto ufficiale russo, “Dersu Uzala” e “Nel profondo Ussuri”, nei quali l’autore racconta le sue esplorazioni in Siberia agli inizi del ventesimo secolo) consentì al regista nipponico di rifarsi dall’insuccesso di pubblico della sua pellicola precedente, “Dodes’ka-den”, che fu un fallimento commerciale nonostante il suo grande valore, a causa del quale Kurosawa sprofondò in una grave crisi personale, che lo indusse a tentare perfino il suicidio e ad abbandonare il cinema per cinque anni. E il maestro giapponese (che firma la sceneggiatura insieme a Yuri Nagibin) non poteva realizzare film migliore di questo per certificare la sua rinascita esistenziale e artistica: “Dersu Uzala” (vincitore dell’Oscar per il Miglior Film Straniero), oltre che uno splendido elogio dell’amicizia, è un poema epico sulla natura (che Kurosawa filma con superba maestria) e sul rapporto che l’uomo ha con essa.

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Maksim Munzuk e Yuri Solomin

Come il solitario e altruista cacciatore mongolo, che non ha più nessuno al mondo e che vive libero nei boschi della taiga siberiana e che parla abitualmente con gli animali e gli elementi naturali (acqua, fuoco e vento) come se parlasse con le persone; cosa del tutto normale per lui, dato che la natura è la sua casa, e senza di essa egli si sentirebbe perso. Infatti, quando l’ufficiale proverà a portarlo a casa con sé, Dersu, ormai anziano e quasi completamente cieco, si sentirà come chiuso in una prigione, e la nostalgia per la vita che conduceva all’aria aperta crescerà a tal punto da convincerlo a ritornare nella sua amata taiga per riprendere contatto con le sue vecchie abitudini. “Dersu Uzala” è un film stupendo, struggente, ricco di momenti memorabili (oltre alla folgorante sequenza descritta all’inizio, sono da citare anche la commovente scena in cui i due protagonisti si salutano credendo di non rivedersi mai più e il bellissimo finale silenzioso, in cui Arseniev ripensa a Dersu con lo sguardo perso nel vuoto). Notevole la fotografia curata da Fyodor Dobronravov, Yuri Gantman e Asakazu Nakai. Frase da ricordare: “L’uomo è davvero piccolo rispetto alla grandezza della natura”. L’unico rammarico è quello di non poter vedere questa autentica pietra miliare nella versione originale: quella italiana, infatti, è scandalosamente tagliata di quindici minuti. Anche così, però, “Dersu Uzala” è un capolavoro. Senza ombra di dubbio, è uno dei film più belli che Kurosawa abbia mai girato.

VOTO: 10/10

Un’appassionante e coinvolgente biografia di Wolfgang Amadeus Mozart, narrata attraverso le parole del suo acerrimo rivale, Antonio Salieri

La locandina di "Amadeus"

La locandina di “Amadeus”

Sfrontato, anticonformista, maleducato, volgare, edonista, irriverente ma anche maledettamente geniale: chi era costui? Semplice: Wolfgang Amadeus Mozart. Un talento, il suo, tanto creativo e precoce quanto ribelle ed effimero, dato che morì, stroncato da una violenta febbre di tifo, a soli trentacinque anni. Eppure, sebbene la vita non gli abbia concesso molto tempo, fu in grado di comporre – fra sinfonie, concerti per pianoforte e orchestra, serenate, musica sacra e da camera, quartetti sia per archi che per pianoforte, per non dimenticare le opere teatrali – qualcosa come settecento lavori. Impressionante. Un’esistenza sregolata, condotta sempre al massimo, perennemente e indefessamente alla ricerca della più bella musica che si potesse offrire al pubblico. E dato che nel campo musicale era un genio assoluto, egli riuscì pienamente nel suo intento. Mozart fu, semplicemente, il miglior compositore che l’orecchio umano abbia mai avuto modo di udire. Logico, quindi, che cotanta bravura, incredibilmente racchiusa in un uomo solo, potesse suscitare un po’ di invidia nei suoi colleghi, inevitabilmente meno dotati di lui, tra i quali ce n’era uno, in particolare, che non lo poteva proprio soffrire: il suo nome era Antonio Salieri, un musicista provvisto “soltanto” di un buon talento, che perciò si dovette accontentare di vivere perpetuamente all’ombra del grande maestro salisburghese. L’astio che Salieri provava nei confronti di Mozart era tale da ossessionarlo fino a farlo diventare paranoico; in vecchiaia arrivò perfino a tentare il suicidio, perché era roso dal rimorso di aver provocato – a suo dire – la morte del suo tanto odiato collega. Ed è proprio da questo episodio, con Salieri rinchiuso in un manicomio, ormai anziano e prossimo alla morte, che parte la pellicola che Milos Forman ha tratto dal testo teatrale di Peter Shaffer, il quale ha curato in prima persona l’adattamento cinematografico della propria opera. Attraverso le parole di un Antonio Salieri ebbro di rabbia e rancore, riviviamo la sua rivalità – più presunta che reale – con Mozart. Sebbene il film esageri nel romanzare la vita di quest’ultimo, il risultato finale è sicuramente di tutto rispetto. “Amadeus” è un film formalmente ineccepibile (notevoli sia i costumi che le scenografie); il regista ceco è abile a confezionare una pellicola spettacolare, appassionante e coinvolgente che, nonostante la lunga durata (158 minuti), riesce sempre a tenere vivo l’interesse dello spettatore.

Tom Hulce e F. Murray Abraham

Tom Hulce e F. Murray Abraham

Grande il duello recitativo fra i due attori protagonisti, Tom Hulce e F. Murray Abraham. Per Hulce il ruolo di Mozart è uno di quelli che, nel bene come nel male, segnano l’intera carriera; infatti, benché in questo caso sia molto bravo ad impersonare l’estroso ed eccentrico compositore austriaco, successivamente non ha mai più avuto ruoli all’altezza di questo, forse perché a rubargli la scena ci pensa l’ottimo Murray Abraham, che, nei panni di Antonio Salieri, riesce a dare corpo alle ossessioni e alle frustrazioni del suo personaggio con un’interpretazione maiuscola. Rimane nella memoria, nel finale, la sua frase “mediocri, ovunque voi siate, io vi assolvo, io vi assolvo, io vi assolvo, io vi assolvo, io vi assolvo tutti”. Il film raggiunge il suo apice nella bellissima scena in cui Salieri aiuta Mozart a completare il “Requiem” che lui stesso gli ha segretamente commissionato: vedere i due musicisti che compongono insieme – in un clima di angoscia crescente – è meraviglioso; quantunque sia fisicamente provato dalla malattia che lentamente lo sta divorando, Mozart riesce lo stesso a dare lezioni di musica a Salieri, il quale, sebbene sia in perfetta salute, fatica come un matto a stare dietro alle continue intuizioni compositive che gli suggerisce il suo collega. Una sequenza, questa, veramente emozionante. Del film ne esiste anche una versione Director’s Cut, uscita nel 2002, più lunga di una ventina di minuti rispetto a quella che venne distribuita nei cinema nel 1984. Per quanto siano interessanti, le scene aggiunte non cambiano granché il giudizio sulla pellicola. Splendida e suggestiva la fotografia di Miroslav Ondricek. Assieme a “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, “Amadeus” è il film più celebre e premiato di Milos Forman. Nel 1985 vinse otto Oscar su un totale di undici nomination: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Attore Protagonista (Murray Abraham), Migliori Costumi (Theodor Pistek), Miglior Suono (Mark Berger, Tom Scott, Todd Boekelheide, Christopher Newman), Miglior Trucco (Paul Le Blanc, Dick Smith) e Miglior Scenografia (Patrizia von Brandenstein, Karel Czerny).

VOTO: 8/10

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