Pennywise, il pagliaccio assassino

La locandina di “It”
Nel 1988 un bambino, Georgie Denbrough (Jackson Robert Scott), viene ucciso da un clown assassino, Pennywise (Bill Skarsgård), che si nasconde nelle fogne di Derry, una cittadina del Maine. L’anno seguente il fratello della vittima, Bill Denbrough (Jaeden Martell), con l’aiuto dei suoi amici, Richie Tozier (Finn Wolfhard), Stanley Uris (Wyatt Oleff), Mike Hanlon (Chosen Jacobs), Eddie Kaspbrak (Jack Dylan Grazer), Beverly Marsh (Sophia Lillis) e Ben Hanscom (Jeremy Ray Taylor), cerca di far luce sulla morte di Georgie, ma mentre indagano sull’accaduto i sette ragazzini devono difendersi da una banda di bulli capeggiata da un individuo psicotico e violento, Henry Bowers (Nicholas Hamilton), che si diverte a perseguitare le sue vittime. Pubblicato nel 1986, “It” di Stephen King è un testo cardine nella carriera dello scrittore americano, tanto da essere considerato come uno dei suoi lavori migliori in assoluto. L’appassionante tomo del maestro del brivido, che nel 1990 aveva ispirato una miniserie televisiva realizzata da Tommy Lee Wallace, si dipanava magistralmente su due diversi piani temporali, uno ambientato negli anni Cinquanta, l’altro negli anni Ottanta, in cui erano collocate rispettivamente l’adolescenza e l’età adulta dei protagonisti, ma la sua notevole complessità narrativa è andata completamente perduta nella trasposizione cinematografica firmata da Andrés Muschietti nel 2017, che costituisce la prima parte di un dittico conclusosi nel 2019 con “It – Capitolo due”, sempre diretto dal regista argentino. A differenza del libro, il film, sceneggiato da Gary Dauberman, Chase Palmer e Cary Fukunaga (quest’ultimo avrebbe dovuto occuparsi anche della regia, ma ha preferito sfilarsi dal progetto perché i produttori non gli permettevano di fare il film che aveva in mente), privilegia una narrazione semplice e lineare, concentrandosi unicamente sulla giovinezza di coloro che formano “Il Club dei Perdenti”, situando quel periodo della loro vita negli anni Ottanta. Raccontare i fatti di uno solo dei due piani temporali su cui si articolava il terrorizzante volume kinghiano da una parte facilita l’immediata comprensione degli eventi, ma dall’altra semplifica troppo l’intreccio, facendogli perdere il suo fascino originario; traslare la gioventù di Bill e soci nel decennio degli Ottanta, invece, appare come una furbata per cavalcare l’onda del successo ottenuto dalla serie “Stranger Things” (2016-in corso). Quando si traduce un romanzo in immagini, si è liberi di effettuare tutte la modiche che si vuole rispetto alla pagina scritta, ma se i cambiamenti non convincono, come nel caso in oggetto, è giusto dirlo chiaramente. Non convincono neppure la prima apparizione di Pennywise, che a furia di occhiate luciferine rivela da subito la sua natura malefica, quando sarebbe stato meglio se l’avesse svelata solo alla fine della scena in questione, e la fotografia di Chung Chung-hoon, che risulta troppo pulita, l’esatto contrario di come avrebbe dovuto essere. Intendiamoci, pur avendo tanti difetti, il film non è tutto da buttare: un paio di scene, quella del lavandino e quella delle diapositive, sono abbastanza efficaci e il cast, composto da giovani attori, è azzeccato, ma al termine della visione resta l’amaro in bocca per l’occasione sprecata. Quello del cineasta sudamericano è un horror appena sufficiente, pensato per un pubblico giovanile e con personaggi poco approfonditi, che affronta in modo semplicistico i temi trattati nel libro (la morte, l’elaborazione del lutto, la paura, l’amicizia, l’adolescenza, il bullismo) e che può essere apprezzato soprattutto da chi non avesse letto il capolavoro letterario da cui è tratto. Chi invece lo avesse letto è probabile che rimarrà perplesso, per non dire deluso, dopo aver visto questo film, che curiosamente (o volutamente?) è uscito a ventisette anni di distanza dalla messa in onda della sopracitata miniserie, ossia lo stesso lasso di tempo che intercorre tra un’apparizione e l’altra di Pennywise. Forse dirigere l’adattamento di “It” era un’impresa troppo ardua per Muschietti. Ci sarebbe voluto un grande regista come il John Carpenter dei tempi migliori o il compianto George A. Romero, ma anche il rocker Rob Zombie avrebbe potuto ottenere un risultato superiore a quello conseguito dall’autore di “La madre” (2013). Insomma, dato l’ottimo materiale di partenza, si poteva fare di più.
VOTO: 6/10
La pericolosa partita

La locandina di “Predators”
Un mercenario, Royce (Adrien Brody), un narcotrafficante, Cuchillo (Danny Trejo), un condannato a morte, Stans (Walton Goggins), una soldatessa, Isabelle (Alice Braga), uno sniper, Nikolai (Oleg Taktarov), un guerrigliero, Mombasa (Mahershala Ali), uno yakuza, Hanzo (Louis Ozawa Changchien), e un dottore, Edwin (Topher Grace), si ritrovano catapultati, loro malgrado, in una foresta imprecisata: ben presto scoprono di essere capitati su un pianeta sconosciuto e di essere stati scelti come prede per una battuta di caccia organizzata da dalle mostruose creature aliene. Anche se la storia ricorda quella del notevole “La pericolosa partita” (1932) di Irving Pichel ed Ernest B. Schoedsack, “Predators” (2010) di Nimród Antal, prodotto da Robert Rodríguez, è il seguito nonché il rifacimento dell’ottimo “Predator” (1987) di John McTiernan. Tralasciando il fatto che quest’ultimo aveva già avuto un seguito, il mediocre “Predator 2” (1990) di Stephen Hopkins, totalmente e volutamente ignorato da questo terzo capitolo della saga, in cui si citano i fatti del primo, ma non, per l’appunto, quelli del secondo, questo film perde nettamente il confronto con il capostipite, risultando inferiore sotto ogni punto di vista. Sceneggiato con disarmante prevedibilità da Alex Litvak e Michael Finch, il film, a parte un incipit non disprezzabile, scorre via senza sussulti fino alla fine, incapace di regalare brividi ed emozioni. La trama procede senza sorprese, gli eventi si susseguono meccanicamente, al punto che lo spettatore capisce in anticipo quello che accadrà, facendo quasi rimpiangere lo scarso secondo episodio. La combinazione di generi, dall’azione all’avventura, dalla fantascienza al thriller, non sortisce gli effetti sperati, anzi, si rivela un guazzabuglio noioso e sgangherato. Nel corso della sua carriera, Antal non ha mai dimostrato particolari doti registiche: nel suo curriculum ci sono cose tipo “Vacancy” (2007), un horror dignitoso ma nulla più, perciò non è che ci si potesse aspettare chissà che cosa. Qui sbaglia quasi tutto: le scene d’azione sono scontate, la tensione latita e il finale è quanto di più deludente si possa immaginare (diciamolo francamente: non se ne può più dei finali aperti). Per non parlare del tentativo, a dir poco maldestro, di imitare “Aliens” (1986) di James Cameron, che i realizzatori di questo film trascurabile hanno avuto la presunzione di omaggiare nel titolo. Gli attori, a cominciare da un volenteroso Adrien Brody negli insoliti panni di un ex militare che deve lottare per sopravvivere, tentano di salvare la baracca, ma non ci riescono, anche perché Danny Trejo e Laurence Fishburne, che interpreta un soldato, Roland Noland, che ha trovato rifugio su un’astronave in disuso, vengono sprecati in ruoli troppo marginali. Gli effetti speciali sono di buon livello, ma il resto lascia a desiderare. Il prototipo di McTiernan resta di gran lunga il miglior capitolo della saga.
VOTO: 4/10
L’addio al tennis di Agnieszka Radwanska

Agnieszka Radwanska
Agnieszka Radwanska ha deciso di lasciare il tennis professionistico. L’ormai ex tennista polacca ha comunicato la sua decisione il 14 novembre attraverso un post pubblicato su Facebook. La notizia del suo ritiro non è giunta inaspettata: nelle settimane precedenti al suo annuncio, infatti, aveva rilasciato delle dichiarazioni molto pessimistiche sul suo futuro, facendo così presagire che la sua carriera fosse prossima alla fine. Com’era facilmente immaginabile, il suo ritiro ha intristito i suoi numerosi sostenitori, che speravano di poter ammirare le sue magie ancora per qualche anno. Il motivo che l’ha spinta ad abbandonare le competizioni è un infortunio al piede, che ha pregiudicato le sue prestazioni nelle ultime due stagioni, tanto da farla precipitare alla settantaquattresima posizione della classifica WTA, per cui non esiste nessuna possibilità di guarigione, neppure con un intervento chirurgico. Il dolore al piede le impediva di allenarsi e giocare come avrebbe voluto. Impossibilitata a competere ad alti livelli, la Radwanska non ha avuto altra scelta se non quella di dare l’addio al tennis giocato. Ha detto basta a ventinove anni, che non sono molti, ma non sono nemmeno pochi, soprattutto per lei, che ha spremuto il suo fisico esile e delicato al massimo per tenere testa ad avversarie fisicamente possenti e dotate di colpi devastanti. Purtroppo resterà sempre il rammarico per non averla mai vista vincere uno Slam: che una tennista così raffinata e con un tasso tecnico così elevato non ne abbia vinto neanche uno è, sportivamente parlando, un’ingiustizia. Ha sfiorato l’impresa a Wimbledon 2012, ma in finale si è dovuta inchinare alla forza d’urto di Serena Williams, contro la quale è uscita sconfitta in tre set. Certamente ha pesato la mancanza di un colpo risolutore, ma forse Agnieszka ha commesso troppe volte l’errore di adottare una tattica troppo attendista, facendo un eccessivo affidamento sulla sua ragnatela di colpi da fondo campo. Se avesse attaccato di più, sfruttando la sua bravura nell’esecuzione delle volèe, e se avesse avuto un po’ più di cattiveria agonistica, probabilmente sarebbe riuscita a portare a casa almeno un Major. E invece è rimasta a bocca asciutta. Peccato, avrebbe meritato una soddisfazione del genere. Il suo tennis d’altri tempi era delizioso ma troppo fragile e leggero per fronteggiare quello potente delle picchiatrici: battere queste ultime giocando di tocco era un compito arduo. Alcune volte ci è riuscita splendidamente, altre invece ha dovuto soccombere alle bordate tirate dalle sue antagoniste, che facevano valere la loro maggior pesantezza di palla.

Agnieszka Radwanska
Sarebbe stato meglio se Aga avesse giocato all’epoca delle racchette di legno: il suo tennis vintage ne avrebbe tratto giovamento e la sua bacheca, con ogni probabilità, sarebbe stata ricca di trofei; ma nonostante non abbia mai trionfato in uno Slam e non sia mai salita in vetta alla classifica mondiale ha collezionato un palmarès di tutto rispetto. Venti tornei vinti, da Stoccolma 2007 a Pechino 2016, passando per Singapore 2015, che ha rappresentato l’apogeo della sua brillante carriera, su ventotto finali disputate, e un best ranking di numero due del mondo, che ha raggiunto nel 2012 e nel 2016, sono la prova che è stata un’ottima tennista, al punto da essere giustamente considerata una campionessa. Oltre ai titoli che ha conquistato battendo in finale rivali del calibro di Maria Sharapova (Miami 2012), Venus Williams (Montreal 2014) e Petra Kvitova (Singapore 2015), ci sono anche i premi che ha ottenuto per il miglior colpo dell’anno e per la giocatrice più amata dai tifosi, che si è aggiudicata rispettivamente per cinque e sei volte consecutive (dal 2013 al 2017 il primo, dal 2011 al 2016 il secondo), a testimonianza del grande seguito e affetto di cui ha goduto tra gli appassionati di tennis di tutto il mondo. Elegante come un cigno, flessuosa come una ginnasta, agile come una ninja e leggiadra come una farfalla, la Radwanska è stata una tennista sui generis, controcorrente rispetto agli standard moderni e di gran classe. Ritirandosi lascia un vuoto difficilmente colmabile, anche perché all’orizzonte non si vedono giocatrici in grado di raccoglierne l’eredità. Quando inizierà la nuova stagione farà uno strano effetto non leggere più il suo nome nei tabelloni dei tornei. Ci vorrà un po’ di tempo per abituarsi al fatto di non vederla più giocare. Se dovessimo citare le sue partite più belle, diremmo quella contro Victoria Azarenka nei quarti dell’Australian Open 2014, quella contro Garbiñe Muguruza nella semifinale delle WTA Finals 2015 e quella contro Roberta Vinci nei quarti di Doha 2016, tre match ad alta gradazione spettacolare in cui la Radwanska ha esibito tutta la sua abilità tecnica e tattica. Poco importa che il suo nome non sia scritto nell’albo d’oro di nessuno dei quattro Slam: con il suo stile unico e inconfondibile, la Radwanska ha lasciato un segno indelebile nel tennis contemporaneo. La libellula di Cracovia ha appeso la racchetta al chiodo, ma i suoi gesti tecnici, come ad esempio i fenomenali colpi in genuflessione, che sono diventati il suo marchio di fabbrica, rimarranno per sempre impressi nella nostra memoria. Grazie, Agnieszka, per tutte le emozioni che ci hai regalato. Vederti giocare è stato stupendo.
Roger Federer: il ritorno del re

Roger Federer
Il 29 gennaio 2017 è una data che verrà ricordata a lungo dagli appassionati di tennis, perché quel giorno Roger Federer, a trentacinque anni suonati (ne compirà trentasei l’8 agosto, essendo nato nel 1981 a Basilea), ha vinto il suo quinto Australian Open, dopo quelli del 2004, 2006, 2007 e 2010, battendo in finale il suo acerrimo rivale, Rafael Nadal, con il punteggio di 6-4 3-6 6-1 3-6 6-3, scrivendo così una delle pagine più belle della sua leggendaria carriera. La splendida vittoria conseguita a Melbourne è il diciottesimo titolo dello Slam per Federer, che nella sua personale bacheca vanta anche sette Wimbledon (2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2009 e 2012), cinque US Open (2004, 2005, 2006, 2007 e 2008) e un Roland Garros (2009). Nonostante l’età non più verdissima, il fuoriclasse svizzero, che con la splendida affermazione di domenica scorsa rafforza la sua prima posizione nella classifica dei tennisti che hanno vinto più tornei del Grande Slam, non smette di stupire e meravigliare. Diciamo la verità: che Roger riuscisse a vincere un altro Major prima di appendere la racchetta al chiodo, lo speravano in tanti, soprattutto i suoi tifosi più incalliti, ma in pochi credevano che sarebbe stato possibile. E invece, come per magia, il sogno si è avverato. E il fatto che il nativo di Basilea abbia conquistato l’Australian Open contro Nadal, rende il tutto ancora più bello e speciale. Dopo un 2016 tormentato da una serie di problemi fisici che avevano condizionato il suo rendimento al punto da costringerlo a chiudere anzitempo la stagione (la sua ultima partita dell’anno scorso è stata la semifinale di Wimbledon che ha perso contro Milos Raonic), quasi nessuno avrebbe immaginato che l’elvetico potesse mettere le mani su un altro trofeo dello Slam. E’ stata una vittoria bellissima e assolutamente meritata, dato che Federer, per ottenerla, ha dovuto battere quattro top ten, Tomas Berdych nel terzo turno (6-2 6-4 6-4), Kei Nishikori negli ottavi (6-7 6-4 6-1 4-6 6-3), Stanislas Wawrinka in semifinale (7-5 6-3 1-6 4-6 6-3) e Nadal in finale, oltre a giocatori meno pericolosi ma da non sottovalutare come Jürgen Melzer (7-5 3-6 6-2 6-2) e Noah Rubin (7-5 6-3 7-6), rispettivamente nel primo e nel secondo turno, e Mischa Zverev nei quarti (6-1 7-5 6-2), sciorinando tutto il suo repertorio di pregevoli giocate. Insomma, è stata una cavalcata trionfale, che si è conclusa nel migliore dei modi. Forse neanche il più abile degli sceneggiatori sarebbe stato in grado di scrivere una storia così avvincente ed emozionante.

Roger Federer
I mesi di inattività, le primavere che passano e che pesano sulle spalle, gli acciacchi fisici e, per ultimo ma non per questo meno importante, l’avversario che Roger ha dovuto affrontare nell’atto conclusivo, il redivivo Nadal, colui il quale lo ha sconfitto ventitré volte, comprese sei finali Slam (quattro al Roland Garros, 2006, 2007, 2008 e 2011, una a Wimbledon, 2008, e una all’Australian Open, 2009), su un totale di trentacinque confronti diretti. Reduce anch’egli da un 2016 tribolato che gli ha riservato poche soddisfazioni, lo spagnolo, resuscitato giusto in tempo per dare vita all’ennesimo epico duello tra due dei tennisti più vincenti di tutti i tempi, partiva favorito in virtù dei precedenti nettamente favorevoli, ma Federer è stato capace di ribaltare il pronostico con una prestazione maiuscola, specialmente nel quinto set, quando ha infilato cinque giochi di fila dopo essere stato sotto di un break. Nel parziale decisivo, Nadal era avanti 3-1, sembrava che ormai fosse destinato ad aggiudicarsi la sfida e battere così per la ventiquattresima volta il rivale di tante battaglie sportive, ma proprio quando pareva spacciato, Federer, dall’alto della sua immensa classe, è salito in cattedra (nell’ottavo game del quinto set ha vinto un incredibile scambio con un magnifico dritto lungolinea in controbalzo che ha strappato applausi a scena aperta), piegando definitivamente la resistenza dell’iberico, che ha nella forza fisica la sua arma migliore, dopo oltre tre ore di gioco, in una partita destinata ad entrare negli annali del tennis. E adesso, dopo averci regalato questa perla, cos’altro ci riserverà Federer prima di ritirarsi dalle competizioni? Difficile dirlo. Innanzitutto ha dichiarato di voler “giocare altri due anni”, e questa è sicuramente un’ottima notizia che farà felici tutti i suoi tifosi e gli amanti del tennis di qualità. Poi chissà che cosa succederà da qui alla fine della sua carriera. Da un tennista del suo calibro ci si può aspettare di tutto, anche che arrivi a venti Slam. Ad ogni modo, una cosa è certa: il re è tornato. Con lui in campo, lo spettacolo non mancherà di sicuro.
F come falso – Verità e menzogne

La locandina di “Rashōmon”
(Attenzione, contiene spoiler) Dunque, cerchiamo di andare con ordine, anche se non è facile, dato che la vicenda è alquanto ingarbugliata. Mentre sta piovendo come Dio la manda, un monaco (Minoru Chiaki) e uno spaccalegna (Takashi Shimura) sono seduti sotto la Porta di Rashô, a Kyoto, con lo sguardo fisso nel vuoto, come se avessero la testa da tutt’altra parte. «Non capisco… proprio non capisco» dice il secondo continuando a fissare un punto indefinito davanti a sé. Nel frattempo arriva un uomo (Kichijiro Ueda), che cerca riparo dalla pioggia che continua a scendere impetuosa. Nell’attesa che spiova, il taglialegna e il religioso raccontano al viandante un tragico fatto avvenuto tre giorni prima: l’omicidio di un samurai, Takehiro Kanazawa (Masayuki Mori), il cui corpo privo di vita è stato trovato dal boscaiolo mentre questi si stava inoltrando nella foresta per fare legna. Attraverso una serie di flashback scopriamo che un brigante noto per la sua ferocia, Tajōmaru (Toshiro Mifune), sotto interrogatorio ha confessato di essere l’autore del delitto e, inoltre, di aver stuprato la moglie del defunto, Masako (Machiko Kyo). Il caso, però, si è complicato quando quest’ultima ha affermato di essere stata lei ad uccidere suo marito, con un pugnale intarsiato di perle, smentendo così la confessione del bandito. La faccenda è diventata ancora più confusa quando il morto, tramite una medium (Fumiko Honma), ha dato la sua versione dei fatti, sostenendo di essersi suicidato. Quindi, chi è il colpevole? Il malvivente? O la donna? Oppure il samurai si è ucciso con le sue mani? Il mistero si infittisce ulteriormente allorché la narrazione torna al presente e il boscaiolo rivela di aver visto con i suoi occhi che Tajōmaru e Takehiro, istigati da Masako, si sono sfidati in un lungo duello al termine del quale il primo ha ammazzato il secondo. Sarà vero, oppure il taglialegna sta mentendo un’altra volta, come quando ha detto di aver trovato casualmente il cadavere nella foresta? Insomma, a questo punto, a chi dobbiamo credere? Al brigante, alla donna, al samurai o al boscaiolo? L’impressione è che abbiano mentito tutti e quattro. Ognuno ha raccontato l’episodio come più gli facesse comodo. Perciò è meglio non credere a nessuno di loro. Forse si potrebbe arrivare alla verità, o quantomeno a qualcosa che le si avvicini il più possibile, mettendo insieme i vari pezzi delle quattro storie, come se si dovesse comporre un puzzle, anche se è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso nelle dichiarazioni dei personaggi coinvolti nella morte del samurai.

Toshiro Mifune
Come si fa a capire cosa sia veramente successo basandosi sulle affermazioni di persone così poco affidabili? La verità, per farla breve, è inafferrabile. Tutti dicono bugie. Tutti sono egoisti. Tutti pensano solo a se stessi e se ne fregano degli altri. L’unica cosa certa è che c’è un cadavere, ma non si sa chi sia il colpevole. I dubbi la fanno da padrone nel dodicesimo film di Akira Kurosawa (anche sceneggiatore con Shinobu Hashimoto), che prende le mosse da due racconti di Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), “Rashōmon” (1915) e “Nel bosco” (1921), per fornire una visione pessimistica del mondo, precipitato in una spirale di bugie, che però nel finale si apre alla speranza, con lo spaccalegna che decide di prendersi cura di un neonato abbandonato dai suoi genitori, un gesto che al monaco restituisce un po’ di fiducia nel genere umano. Dall’alto del suo genio, il maestro giapponese ci regala una formidabile lezione di cinema, realizzando un’opera perfetta, senza la benché minima sbavatura, talmente moderna e in anticipo sui tempi da sembrare uscita ieri, e che è stata fonte di ispirazione per intere generazioni di registi che l’hanno copiata, omaggiata e citata tante di quelle volte da perderne il conto (“Sotto la bandiera del Sol Levante”, 1972, di Kinji Fukasaku, “Omicidio in diretta”, 1998, di Brian De Palma e “Una separazione”, 2011, di Asghar Farhadi sono solo alcuni dei film che, probabilmente, non sarebbero mai esistiti senza “Rashōmon”, 1950). Mirabile la regia, con la cinepresa che segue i protagonisti nei tre luoghi in cui si svolge l’azione (la Porta di Rashô, la foresta e il cortile del tribunale) con movimenti incessanti e frenetici (come nella memorabile scena in cui il legnaiolo cammina nella selva e all’improvviso si imbatte nella salma del samurai), e splendido il cast, in cui svettano due volti ricorrenti nella filmografia di Kurosawa, Mifune e Shimura, scatenato e incontenibile il primo, controllato e misurato il secondo, ai quali si aggiungono l’eccellente Mori e l’affascinante ed enigmatica Kyo.

Machiko Kyo
Vincitore, nel 1951, del Leone d’oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e, nel 1952, dell’Oscar per il Miglior Film Straniero, “Rashōmon” è un giallo avvincente e senza soluzione (al regista non interessa stabilire chi sia l’assassino, ma indagare la natura umana), un poliziesco appassionante in cui i punti di vista si moltiplicano vertiginosamente (la testimonianza del defunto, che sembra provenire da un horror, mette i brividi), un rompicapo raccontato a colpi di flashback (la struttura narrativa, basata sul tentativo di sciogliere il mistero intorno a cui gira l’intera trama, è mutuata da “Quarto potere”, 1941, di Orson Welles) che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine, affidandogli il compito di sbrogliare l’intricata matassa, rendendolo così partecipe della storia narrata. Il rifacimento in salsa western diretto da Martin Ritt nel 1964, intitolato “L’oltraggio”, con Paul Newman, Edward G. Robinson, Claire Bloom e Laurence Harvey, non si avvicina nemmeno lontanamente alla bellezza dell’originale, che rimane ineguagliabile. Per rendere l’idea di quanto sia grande questo film, basti dire che Ingmar Bergman definì “La fontana della vergine” (1960), una delle pellicole più belle e significative del visionario autore svedese, «una miserabile imitazione di “Rashōmon”». Dopo aver girato questa pietra miliare, che tra i tanti meriti ebbe anche quello di rivelare al mondo il folgorante talento registico di Kurosawa e quello recitativo di Mifune, il cineasta nipponico si dedicò alla trasposizione cinematografica de “L’idiota” (1869) di Fëdor Dostoevskij, con Mifune, Mori e Shimura ancora come protagonisti: ne venne fuori un altro film straordinario, che però fu massacrato dai produttori, che lo tagliarono brutalmente, lasciando il rimpianto di non poter vedere il film esattamente come lo aveva pensato e realizzato Kurosawa.
VOTO: 10/10
Andy Murray: il tennista che fa collezione di finali Slam perse

Andy Murray
La sconfitta che ha rimediato contro Novak Djokovic nell’atto conclusivo dell’ultimo Roland Garros ha consentito a Andy Murray di compiere la poco invidiabile impresa di perdere l’ottava finale Slam della sua carriera su un totale di dieci disputate. Australian Open 2010, 2011, 2013, 2015 e 2016, Roland Garros 2016, Wimbledon 2012 e US Open 2008: questo è il lungo elenco delle finali Slam perse da Murray, che quando è giunto all’ultimo atto di un Major è riuscito a imporsi soltanto in un paio di occasioni, US Open 2012 e Wimbledon 2013. Due sole vittorie su dieci tentativi è un bilancio che definire disastroso è poco. A causa della sua propensione alla sconfitta, alcuni gli hanno affibbiato l’etichetta di “magnifico perdente”. Per completezza di cronaca, va detto che nella bacheca di Murray, nato a Glasgow il 15 maggio del 1987, oltre alle due sopracitate prove del Grande Slam ci sono anche trentaquattro tornei del circuito ATP (su quarantasei finali), tra cui Cincinnati nel 2008 e 2011, Miami nel 2009 e 2013, Madrid nel 2008 e 2015 e Roma nel 2016, un oro olimpico, a Londra, nel 2012, e una Coppa Davis, nel 2015, che ha vinto quasi da solo, dato che ha trascinato la Gran Bretagna al successo aggiudicandosi tutte le undici partite, otto di singolare e tre di doppio (in coppia con suo fratello maggiore, Jamie), che ha disputato; ma se andrà avanti di questo passo, Andy rischierà di essere ricordato più per le sue sconfitte che per le sue vittorie, e non è da escludere che un giorno, quando avrà smesso di giocare, qualcuno scriverà un libro sui suoi insuccessi, intitolandolo “Andy Murray: il tennista che faceva collezione di finali Slam perse”. A sua parziale scusante, bisogna dire che in tutte le finali Slam in cui si è dovuto arrendere ha sempre affrontato rivali di alto livello come Federer (tre volte: US Open 2008, Australian Open 2010 e Wimbledon 2012) e Djokovic (cinque volte: Australian Open 2011, 2013, 2015 e 2016, Roland Garros 2016), quindi non ha perso contro avversari abbordabili e nettamente alla sua portata, ma contro giocatori di grosso calibro, complessivamente più forti di lui.

Andy Murray
Dei cosiddetti Fab Four dell’attuale epoca tennistica, ossia Roger Federer, Novak Djokovic, Rafael Nadal e, per l’appunto, Murray, il ventinovenne scozzese è quello che gode di minor considerazione. Viene naturale paragonarlo a Ringo Starr, il batterista dei Beatles che si doveva accontentare di quel poco che gli lasciavano gli altri tre fenomeni che componevano il formidabile quartetto di Liverpool, ossia John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Così come Ringo, anche il buon Andy si deve accontentare di quel poco che gli lasciano gli altri tre fuoriclasse della racchetta. Può darsi che sia un caso, ma i suoi più grandi successi, US Open, Wimbledon e l’oro olimpico, il britannico li ha ottenuti nel periodo in cui è stato allenato da Ivan Lendl, l’ex campione cecoslovacco naturalizzato statunitense che ha vinto otto Slam (tre Roland Garros, nel 1984, 1986 e 1987, tre US Open, nel 1985, 1986 e 1987, e due Australian Open, nel 1989 e 1990) su diciannove finali. Sarà forse per questo motivo che Murray ha nuovamente sentito l’esigenza di rivolgersi a Lendl, nella speranza che quest’ultimo, con la sua esperienza e sagacia tattica, lo faccia tornare a vincere i titoli più prestigiosi, quelli che regalano l’immortalità tennistica, ovvero gli Slam. Il rinnovato binomio Murray-Lendl, per il momento, ha permesso al primo di conquistare il Queen’s per la quinta volta nella sua carriera, diventando così il giocatore che vanta il maggior numero di trionfi nel suddetto torneo sull’erba in preparazione di Wimbledon che si svolge ogni anno a Londra in un circolo ricco di fascino e che profuma di antico. Ai tempi della loro prima collaborazione, Lendl aveva contribuito ad apportare dei significativi cambiamenti nel gioco di Murray, trasformandolo in un tennista più aggressivo da fondo campo, in modo che fosse lui a dettare il ritmo degli scambi per evitare di essere schiacciato dalla pressione dell’avversario. Adesso che i due sono tornati a lavorare insieme, vedremo se Lendl riuscirà ad aiutare Murray a scrollarsi di dosso l’etichetta di “magnifico perdente”.
Agnieszka Radwanska: Il Violino di Cracovia

Agnieszka Radwanska
Vedendo la facilità con cui esegue i colpi al limite dell’impossibile e l’eleganza e la leggerezza con cui si muove in campo, viene naturale chiedersi come sia possibile che una tennista così talentuosa non abbia ancora vinto nemmeno una prova dello Slam. Stiamo parlando di Agnieszka Radwanska, nata a Cracovia il 6 marzo del 1989, che, nonostante abbia una mano fatata, per l’appunto non è ancora riuscita a trionfare in nessuno dei quattro Major, Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open, che si disputano ogni anno, rispettivamente a Melbourne, Parigi, Londra e New York. Il caso della Radwanska è la dimostrazione che nello sport non sempre vincono gli atleti più bravi. Purtroppo, verrebbe da dire. Come ben sanno gli addetti ai lavori e gli appassionati, avere talento non basta per imporsi sugli avversari. Basti pensare, ad esempio, alla formidabile Nazionale di calcio olandese degli anni Settanta, che con i suoi schemi innovativi ha rivoluzionato il mondo del pallone e che schierava nelle proprie fila fuoriclasse del calibro di Johan Cruijff, che incredibilmente non ha vinto né un Mondiale né un Europeo. Tornando al tennis, se il talento fosse sufficiente per sbaragliare la concorrenza, il geniale John McEnroe, che quando impugnava la racchetta era capace di fare cose che noi umani non possiamo neanche immaginare, avrebbe sempre battuto Bjorn Borg, Jimmy Connors e Ivan Lendl, i suoi tre più grandi rivali. Anche il fenomenale Roger Federer, dall’alto della sua immensa classe, dovrebbe sconfiggere senza troppi problemi Novak Djokovic e Rafael Nadal; e invece non è così, dal momento che lo svizzero dal braccio d’oro trova sempre grandi difficoltà sia contro il serbo che contro lo spagnolo. Se continua così, la Radwanska rischia di fare la stessa fine di Henri Leconte e Miloslav Mecir, due tennisti molto talentuosi che hanno chiuso la loro carriera senza aggiudicarsi neppure uno Slam.

Agnieszka Radwanska
La ricamatrice polacca, per ora, è andata vicina a centrare il bersaglio grosso una sola volta, quando, nel 2012, si è dovuta arrendere in tre set a Serena Williams nella finale di Wimbledon, il torneo più prestigioso del mondo, quello che tutti i tennisti sognano di conquistare, nel quale la Nostra vanta anche due semifinali, nel 2013 e nel 2015, perse rispettivamente contro Sabine Lisicki e Garbiñe Muguruza. Alla leggiadra Agnieszka il tempo per sfatare il tabù Slam non manca di certo, ma se non dovesse riuscirci sarebbe un vero peccato. Come detto in precedenza, Aga è capace di eseguire colpi ad altissimo coefficiente di difficoltà, come la demi-volée no look, la volée stoppata con l’effetto a rientrare o la finta palla corta, con una naturalezza disarmante, lasciando gli spettatori a bocca aperta. Colpi del genere le sue colleghe, essendo tecnicamente meno dotate, non se li possono nemmeno sognare. Un’altra peculiarità della Radwanska è quella di colpire la palla, sia di dritto che di rovescio, in genuflessione, una particolarità che, lungi dall’essere un mero sfoggio atletico, le permette di non perdere centimetri preziosi nei confronti delle avversarie, specialmente quelle che picchiano come dei martelli, che lei manda in tilt tessendo una fitta ragnatela di colpi uno diverso dall’altro, un’abilità che le è valsa il soprannome di “Tessitrice”. Un altro soprannome che le è stato dato è quello di “Professoressa”, per la sua straordinaria intelligenza tattica, che le consente di competere contro le giocatrici che tirano molto forte e che hanno un fisico imponente, al contrario di lei che gioca di tocco e che ha una corporatura normale.

Agnieszka Radwanska
Certuni sostengono che la filiforme Agnieszka, che è alta 1 metro e 73 centimetri e che pesa 56 kg, sia troppo magra per reggere gli scambi con le cosiddette “picchiatrici”, alcune delle quali, essendo alte come dei lampioni e avendo dei muscoli ben sviluppati, fisicamente la sovrastano; ma se aumentasse la massa muscolare, la libellula polacca, probabilmente, perderebbe parte della sua elasticità, e sarebbe un peccato, visto che uno dei suoi punti di forza è l’agilità dei suoi movimenti. La sua grande rapidità negli spostamenti laterali e frontali le permette di effettuare dei recuperi incredibili, al punto da essere considerata una delle migliori del circuito nella fase difensiva. Nel suo palmarès figurano diciotto titoli in singolare, da Stoccolma nel 2007 a Shenzhen nel gennaio di quest’anno, passando per, tra gli altri, Pechino nel 2011, Miami nel 2012 e Montreal nel 2014, e due in doppio, Istanbul nel 2007 e Miami nel 2011, rispettivamente in coppia con sua sorella minore, Urszula, e Daniela Hantuchova. L’apice della sua carriera lo ha raggiunto il primo novembre del 2015, quando ha trionfato alle WTA Finals di Singapore, in cui si sfidavano le migliori otto giocatrici del mondo, sconfiggendo in finale Petra Kvitova, dopo aver battuto in semifinale Garbiñe Muguruza, al termine di un incontro combattuto ed entusiasmante, e aver perso due partite su tre nel girone (un’impresa mai riuscita a nessuna prima di lei), contro Maria Sharapova e Flavia Pennetta, ottenendo la qualificazione alla seconda fase del torneo grazie alla vittoria in due set su Simona Halep, annichilita a suon di magie (vedere per credere il tie-break del primo set, in cui la polacca ha rimontato uno svantaggio di 1-5 con una serie di prodezze, tra cui un paio di veroniche di rara bellezza stilistica), e al set strappato alla Sharapova nel primo match.

Agnieszka Radwanska
E a proposito di magie: la Radwanska è famosa per i suoi colpi geniali e, come detto all’inizio, al limite dell’impossibile, tanto da essere stata soprannominata “La Maga”. A noi, però, piace chiamarla “Il Violino di Cracovia”, per l’eccezionale sensibilità che ha nella mano e per la grazia dei suoi gesti tecnici, che la fanno sembrare una violinista dal tocco delicato e raffinato. Vederla muoversi leggera come una farfalla, correre con l’agilità di una gazzella, passare dalla fase difensiva a quella offensiva all’interno dello stesso scambio, alternare colpi piatti e tagliati, disegnare traiettorie precise e insidiose, aprire gli angoli, inginocchiarsi per colpire di controbalzo, rialzarsi scattando come una molla, andare a prendersi il punto a rete con una volée da manuale, usare la racchetta come un fioretto è uno spettacolo che riempie gli occhi. “Aga la Maga” possiede un invidiabile bagaglio tecnico: guardarla giocare è meraviglioso, sembra di fare un viaggio a ritroso nel tempo. Assistere alle sue partite, come quella contro Victoria Azarenka all’Australian Open di due anni fa, in cui ha impartito una severa lezione alla bielorussa annientandola nel primo e nel terzo set (6-1 5-7 6-0 il punteggio in suo favore) con una sequela di giocate da antologia, o quella contro Roberta Vinci a Doha nel febbraio di quest’anno, in cui ha sciorinato tutto il suo repertorio incantando il pubblico con i suoi numeri d’alta scuola, è come fare un tuffo nel passato, quando ancora si giocava con le racchette di legno e contava soprattutto la manualità, non la forza fisica, come invece avviene oggi. Il giorno in cui Agnieszka deciderà di ritirarsi dalle competizioni, difficilmente ci sarà qualcuna in grado di eguagliarne lo stile.

Agnieszka Radwanska
Nel panorama del tennis contemporaneo, sempre più dominato dalla potenza a scapito della tecnica, la Radwanska, con il suo gioco fantasioso e imprevedibile, i suoi improvvisi cambi di ritmo, i suoi fulminei attacchi in controtempo, i suoi splendidi ricami, le sue continue variazioni e le sue armoniose movenze da ballerina, rappresenta una felice eccezione, un caso quasi più unico che raro; pur non avendo la potenza delle picchiatrici, da tennista atipica qual è, preferisce giocare sulle superfici veloci, dove può sfruttare la velocità dei colpi altrui per colpire la palla di controbalzo, esibendo un’elasticità fuori dal comune, come se avesse le articolazioni snodabili. A ventisette anni, Aga, che si contraddistingue anche per il suo comportamento sempre corretto (a differenza di tante sue colleghe, non urla come un’isterica quando colpisce la pallina e non esulta come una matta sugli errori delle avversarie), è nel pieno della sua maturità sportiva: il suo obiettivo, come ha dichiarato lei stessa, è quello di trionfare in uno Slam, sfruttando finalmente appieno il talento che Madre Natura le ha elargito. A parte una seconda di servizio troppo debole e facilmente attaccabile, sul piano tecnico non ha difetti. Il suo problema è che ha dei limiti caratteriali, a causa dei quali ha sprecato tante occasioni favorevoli. Le manca un po’ di grinta e di cattiveria agonistica: in certi frangenti delle partite dovrebbe essere più aggressiva, potrebbe scendere a rete più spesso per chiudere il punto invece di continuare a scambiare da fondo campo; ma chissà che prima o poi non le riesca la magia di portare a casa un trofeo dello Slam, magari in quel di Londra, nel tempio di Wimbledon, dato che l’erba è la sua superficie preferita, quella su cui gioca meglio e che esalta maggiormente le sue caratteristiche di giocatrice d’altri tempi. Per realizzare il suo scopo, Agnieszka dovrà usare la racchetta come una bacchetta magica e stregare le avversarie con i suoi incantesimi da Maga.