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Nel labirinto della mente

La locandina di "Images"

La locandina di “Images”

Prendendo spunto da un racconto di Susannah York, “In Search of Unicorns” (che l’attrice pubblicherà nel 1973), nel 1972 Robert Altman realizza il film più sperimentale e anomalo di tutta la sua carriera: “Images”. Generalmente non viene considerato tra i lavori migliori del cineasta americano, ed è un peccato, perché stiamo parlando di un thriller psicologico davvero notevole e molto sottovalutato (soprattutto da Morando Morandini e Paolo Mereghetti, che nei loro dizionari gli hanno affibbiato voti piuttosto bassi che non rendono giustizia alla bellezza della pellicola) che scava in profondità nella psiche disturbata di una donna che progressivamente scivola nella follia. Cathryn è giovane, fa la scrittrice ed è sposata con Hugh (che nella versione italiana, non si sa bene per quale motivo, diventa Bob; misteri del doppiaggio). Un giorno, mentre è a casa da sola, inizia a ricevere strane telefonate in cui una voce femminile la informa che suo marito la tradisce con un’altra donna. Quando torna a casa, Hugh capisce che sua moglie è in preda a un forte esaurimento nervoso, perciò le propone di andare ad abitare per un po’ di tempo in un cottage immerso nel verde e nel silenzio della campagna irlandese. Lì, lontano da tutto e da tutti, lui intende dedicarsi alla caccia, lei, invece, alla stesura del libro a cui sta lavorando, “In Search of Unicorns”. In quell’abitazione isolata e priva di telefono, i due coniugi riceveranno la visita di un uomo, Marcel, accompagnato da sua figlia, Susannah, e Cathryn si ritroverà a dialogare con un fantasma, René. Altman (anche sceneggiatore) si affida a una messa in scena cupa ed enigmatica e costringe lo spettatore ad entrare nella mente malata di Cathryn, la quale, in un crescendo narrativo vertiginoso, confonde la realtà con l’immaginazione e viceversa. Guardando il film, a volte è difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è frutto della fantasia della protagonista; i piani narrativi si sovrappongono e si intersecano con una fluidità stupefacente, e il regista riesce a mescolare le carte in tavola con l’abilità di un giocatore professionista.

Susannah York

Susannah York

Nessun trucco e nessun inganno però, solo tanta maestria registica (i piani sequenza e le zoomate sono di una precisione millimetrica) e un uso sapiente della tecnica dell’overlapping, con le voci che si accavallano una sopra l’altra, e delle scenografie (curate da Leon Ericksen), con la casa di campagna, in cui si svolge gran parte della storia, e il paesaggio che la circonda che sembrano usciti direttamente da un film dell’orrore. Altman, in forma smagliante, firma un’opera angosciante e labirintica, nevrotica e claustrofobica, che si situa a metà strada tra Roman Polanski (per le similitudini con “Repulsion”, 1965, che narra anch’esso di una donna che soffre di schizofrenia) e Ingmar Bergman (per l’introspezione psicologica del personaggio principale) e che abbraccia generi diversi, dall’horror al thriller passando per il fantasy, formando un dedalo inestricabile in cui è facile perdere l’orientamento. “Images” è un incubo ad occhi aperti, è una lenta e inesorabile discesa negli abissi dell’inconscio che turba e sconvolge profondamente. La suspense e la tensione reggono dall’inizio alla fine senza cedimenti, e gli attori, a cominciare dall’eccezionale Susannah York (Cathryn), attorniata da un coro di ottime spalle composto da René Auberjonois (Hugh), Marcel Bozzuffi (René), Hugh Millais (Marcel) e Cathryn Harrison (Susannah), si calano benissimo nei loro ruoli. Pregevole l’apporto del reparto tecnico: l’ossessiva e straniante colonna sonora di John Williams e del percussionista Stomu Yamash’ta, la fotografia dai colori autunnali di Vilmos Zsigmond e il montaggio vorticoso di Graeme Clifford (che procede per analogie, come quando passa dall’acqua che scende dalla doccia a quella che scende dalla cascata) si rivelano fondamentali per l’esemplare riuscita del film. Incastonato tra due perle del calibro di “McCabe and Mrs. Miller” (1971) e “The Long Goodbye” (1973), “Images” è un puzzle complesso e articolato le cui tessere si incastrano alla perfezione. Per la sua intensa e magistrale prova, l’incantevole Susannah York vinse il Prix d’interprétation féminine al venticinquesimo Festival di Cannes.

VOTO: 8/10

The Queen Is Dead

La locandina di "Marie Antoinette"

La locandina di “Marie Antoinette”

(Attenzione, contiene spoiler) Sofia Coppola: pessima attrice (vedere per credere la sua disastrosa interpretazione nel terzo capitolo della saga del “Padrino”) ma ottima regista. “Marie Antoinette” è un’opera raffinata ed emozionante, visivamente sontuosa, in cui ogni dettaglio è curato alla perfezione, con la quale la figlia del grande Francis Ford Coppola chiude magnificamente un’ideale trilogia, cominciata con il pregevole “Il giardino delle vergini suicide” e proseguita con il delizioso “Lost in Translation”, dedicata alla cosiddetta “giovinezza inquieta”. La pellicola (basata su un libro di Antonia Fraser, “Maria Antonietta – La solitudine di una regina”) racconta – molto liberamente – la vita di Maria Antonietta, ossia l’austriaca che divenne la regina di Francia. La storia prende il via nel 1768, quando la Francia e l’Austria raggiungono, dopo lunghe ed estenuanti trattative, un accordo di pace: per rinsaldare l’armistizio siglato con tanta fatica, l’imperatrice Maria Teresa decide di dare in sposa al nipote di re Luigi XV, Luigi Augusto, una delle sue figlie, la quattordicenne Maria Antonietta. Per la ragazza il distacco dalla famiglia è doloroso, e l’impatto con la nuova realtà inevitabilmente traumatico. Sperduta e confusa, non appena mette piede nella reggia di Versailles mostra subito segni di insofferenza verso le rigide regole che l’etichetta le impone. Il matrimonio, poi, si rivela un fallimento, perché il marito è totalmente insensibile al suo fascino, cosa che rende problematica la nascita di un erede. Costretta a subire la pressione della madre, la quale vorrebbe che lei desse alla luce un bambino prima di sua cognata, la contessa di Provenza, Maria Antonietta, nel tentativo di dimenticare le ansie e i problemi che l’affliggono, si abbandona al lusso più sfrenato e ha un flirt con il conte Hans Axel von Fersen. La gente, nel frattempo, inizia a mormorare e i pettegolezzi sui due coniugi si sprecano.

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

La ragazza, ribelle e intollerante, sempre più annoiata dalla vita di corte, cova un odio profondo contro Madame du Barry, colei che ha il compito di sollazzare il vecchio re; la sopraggiunta morte di questi (per mano del vaiolo) costringe Maria Antonietta e il suo consorte a diventare i sovrani di Francia, con tutte le responsabilità del caso. Una condotta assai superficiale degli affari di Stato da parte dei due giovani sarà loro fatale: il popolo francese, che accusa la regina di sperperare i soldi per cose futili, stremato dalla fame e dalla fatica, scatena una rivolta che porterà alla morte di Maria Antonietta mediante ghigliottina il 16 ottobre del 1793. La Rivoluzione Francese si vede soltanto nei minuti finali, quasi come fosse un evento secondario (mentre mancano del tutto la prigionia, il processo e la pena di morte a cui fu sottoposta la regina; una scelta coraggiosa e controcorrente, che però ha fatto storcere il naso ad alcuni critici), perché quello che interessa maggiormente alla regista è mostrare la difficoltà di diventare grande e lo spaesamento di un’adolescente, strappata alla sua giovinezza da una genitrice che ha pensato bene di utilizzarla come strumento per rafforzare l’accordo di pace ottenuto con la Francia, che viene obbligata a crescere più in fretta del dovuto e ad abbandonare la sua casa e i suoi familiari per essere catapultata in un Paese straniero.

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Nel raccontare ciò, la Coppola ritrova la sensibilità che permeava la sua opera prima, “Il giardino delle vergini suicide”, realizzando così un film che si muove, con finezza e tatto, sul confine invisibile che separa la giovinezza dall’età adulta, quel confine che Joseph Conrad chiamava “la linea d’ombra”, una linea tanto sottile e impercettibile quanto dolorosa e penosa, che Maria Antonietta sarà chiamata a superare anzitempo, scoprendo sulla propria pelle quanto possa essere amaro e faticoso oltrepassarla quando non si è ancora pronti per farlo. La regista, inoltre, si destreggia con grande abilità e suprema eleganza sia nelle enormi stanze della reggia di Versailles (un palazzo che conta ben 700 camere) che negli affascinanti giardini all’esterno del castello, componendo inquadrature accurate ed eleganti, dimostrando in questo modo di avere un talento non comune per l’immagine. Una biografia della regina di Francia non convenzionale, un bello schiaffo in faccia a tutti quei film in costume ingessati e senz’anima che non regalano alcuna emozione, perché realizzati da registi totalmente incapaci di infondere calore alle storie che narrano. “Marie Antoinette” trova la sua ragion d’essere nella libertà espressiva: è un’opera anticonformista, raccontata – intuizione geniale – a ritmo di rock, con brani di gruppi come Gang of Four (“Natural’s Not in It”, sparata sui titoli di testa, durante i quali vediamo Maria Antonietta degustare una torta con aria pigra e distratta), The Cure (“Plainsong” e “All Cats Are Grey”), Siouxsie and the Banshees (“Hong Kong Garden”), The Strokes (“What Ever Happened”) e New Order (“Ceremony”, sulle cui note si svolge la meravigliosa sequenza in cui la regina festeggia il suo compleanno).

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

Se il film possiede un fascino notevole, oltre che alla bravura della cineasta, lo si deve anche all’apporto impeccabile di tutto il reparto tecnico, con menzione particolare per i lussuosi costumi firmati da Milena Canonero (premiata con un meritato Oscar; per lei è il terzo dopo quelli ottenuti per “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick e “Momenti di gloria” di Hugh Hudson), ma sono parimenti degne di nota la suggestiva fotografia di Lance Acord e le ineccepibili scenografie curate da K. K. Barrett. Ragguardevole il cast (a parte Asia Argento, che interpreta Madame du Barry), nel quale compaiono gli ottimi Jason Schwartzman (Luigi XVI), Danny Huston (Giuseppe II del Sacro Romano Impero), Judy Davis (la contessa de Noailles), Marianne Faithfull (Maria Teresa d’Austria), Aurore Clément (la duchessa di Chartres) e Mathieu Amalric (in un piccolo ruolo: quello di un uomo al ballo in maschera); ma la prova che svetta su tutte le altre è sicuramente quella di Kirsten Dunst, ragazza dal viso angelico e dal corpo suadente che con la sua lucente presenza è in grado, da sola, di illuminare l’intera pellicola. Con questa eccellente interpretazione (indubbiamente la migliore della sua carriera), la Dunst si rivela una Maria Antonietta semplicemente perfetta. Infine, una curiosità: per poter avere nella colonna sonora del film tre canzoni dei Radio Dept., “Pulling Our Weight”, “I Don’t Like It Like This” e “Keen on Boys”, la regista ha dovuto svelare ai membri del gruppo cosa dice Bill Murray a Scarlett Johansson nel bellissimo finale di “Lost in Translation”. Cara Sofia (scusa se mi permetto di darti del tu): dal momento che, oltre ad essere un grande ammiratore dei tuoi film, pure io sono curioso di sapere cosa bisbigli il vecchio Bill all’orecchio della dolce Scarlett in quella struggente scena che scorre sulle ammalianti note di “Just Like Honey” dei Jesus and Mary Chain, perché non riveli anche a me quel segreto?

VOTO: 8/10

 

I tre samurai

La locandina di "Tre samurai fuorilegge"

La locandina di “Tre samurai fuorilegge”

(Attenzione, contiene spoiler) Confesso che questo film non lo conoscevo affatto. Non sapevo nulla nemmeno del regista che lo ha realizzato, Hideo Gosha. Ho potuto scoprire “Tre samurai fuorilegge” grazie a “Fuori Orario”, che lo ha trasmesso in una notte nella quale era programmato anche “Violent Cop”, il folgorante esordio nella regia di Takeshi Kitano. Tratto da una serie televisiva diretta dallo stesso Gosha, “Tre samurai fuorilegge” è l’opera prima per il cinema del cineasta giapponese, che ci racconta la storia di un samurai vagabondo, Shiba Sakon, che un giorno, camminando solitario senza una meta precisa, scorge la presenza di un vecchio mulino nei pressi di un borgo di campagna. Mentre vi si reca, nota per terra una spilla per capelli (un oggetto che tornerà più volte nel corso della vicenda); dopo averla raccolta, il samurai, esausto per il lungo peregrinare, entra nel macinatoio con l’intento di riposare, ma scopre che è già occupato da tre uomini, Jinbei, Gosaku e Yohachi, che tengono in ostaggio una ragazza, Aya, figlia del funzionario del villaggio, il quale spadroneggia sui poveri contadini, che sono stanchi di subire le sue prevaricazioni. Alla base del gesto estremo compiuto dai coltivatori c’è l’intenzione di costringere il funzionario ad abbassare le tasse. Jinbei, Gosaku e Yohachi sono determinati e disposti a tutto, anche a morire, pur di far valere le proprie ragioni. Colpito e ammirato dal coraggio dimostrato dai villici, Shiba decide di schierarsi al loro fianco.

Tetsuro Tamba, Isamu Nagato e Mikijiro Hira

Tetsuro Tamba, Isamu Nagato e Mikijiro Hira

Dopo aver fallito un primo tentativo di liberare la figlia, il funzionario ci riprova mettendo insieme una squadra composta da un suo scagnozzo abile con la katana, Kikyo Einosuke, un samurai rinchiuso in cella per vagabondaggio, Sakura Kyojuro, e tre detenuti condannati a morte; ma questi ultimi vengono sconfitti facilmente da Shiba e Sakura, che proviene da una famiglia di contadini, quando viene messo al corrente delle motivazioni che hanno spinto Jinbei, Gosaku e Yohachi a rapire la ragazza, senza pensarci troppo segue l’esempio di Shiba e anch’egli si schiera dalla parte degli agricoltori, mentre Kikyo, impassibile e disinteressato, assiste alla scena senza muovere nemmeno un dito. Irato per l’esito negativo del blitz realizzato per sottrarre Aya ai suoi sequestratori, il funzionario prima assolda dodici mercenari ordinando loro di uccidere i contadini, poi assegna a Kikyo il compito di rapire la figlia di Gosaku, Yasu. Gosha (autore anche della sceneggiatura insieme a Eizaburo Shiba e Keiichi Abe) è molto bravo nel costruire personaggi complessi e tormentati, pieni di contraddizioni, ripensamenti e problemi esistenziali (si pensi, ad esempio, ad Aya, che finisce con l’invaghirsi di Shiba; oppure a Sakura, angosciato dal rimorso di aver ucciso il marito, Mosuke, della donna di cui è innamorato, Iné), che popolano un coinvolgente affresco sociale intriso di dolore, brutalità e sangue.

Mikijiro Hira, Tetsuro Tamba e Isamu Nagato

Mikijiro Hira, Tetsuro Tamba e Isamu Nagato

Da una parte c’è l’arroganza e la protervia dei potenti, che esercitano la loro forza sui deboli, dall’altra c’è la disperazione e la sofferenza della povera gente, costretta a subire vessazioni di ogni sorta: sebbene il regista non nasconda di parteggiare per i contadini nella battaglia che questi ultimi ingaggiano contro il potere, qui rappresentato da un funzionario altezzoso e crudele che non esita a ricorrere alla violenza, il film non scade mai nel manicheismo. Gosha riesce a celebrare coloro che conducono una vita di stenti e sacrifici senza retorica né patetismo, arrivando a toccarci nel profondo con momenti di assoluta poesia (specialmente nella struggente e tenera storia d’amore tra Iné e Sakura). Il regista nipponico gira con uno stile folgorante, lirico e frenetico al contempo, tenendo un ritmo ineccepibile che non conosce cedimenti. La pellicola contiene combattimenti spettacolari ed emozionanti (la resa dei conti finale tra i tre samurai del titolo e gli sgherri del funzionario è da antologia), nei quali Gosha utilizza alla perfezione il CinemaScope (splendide le riprese oblique). Eccellenti il montaggio di Kazuo Ota, che conferisce un grande dinamismo all’azione, e la fotografia di Tadashi Sakai, che “sporca” il bianco e nero quel tanto che basta per far sì che la pellicola guadagni in realismo. Ottime le prove di Tetsuro Tamba (Shiba), Isamu Nagato (Sakura) e Mikijiro Hira (Kikyo). Ricco di sequenze memorabili (tra le tante citiamo quella in cui Shiba subisce cento frustate, davvero straziante e impressionante), “Tre samurai fuorilegge” è un film teso, appassionante e avvincente. In una parola sola: stupendo.

VOTO: 10/10

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