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Lucertola

La copertina di

La copertina di “Lizard”

Generalmente “Lizard” è considerato come il disco più ostico dei King Crimson, quello più difficile da apprezzare, ma dopo un attento e approfondito ascolto, non si può non rimanere affascinati dalla sua intrinseca bellezza. Uscito nel 1970, è il terzo lavoro del formidabile gruppo inglese, che dopo aver realizzato l’imprescindibile “In the Court of the Crimson King” (1969) e l’ottimo “In the Wake of Poseidon” (1970), che per metà ricalcava l’LP precedente, cambia radicalmente formazione. Il cantante Greg Lake, il batterista Michael Giles e il bassista Peter Giles, infatti, se ne sono andati (il primo si è unito a Keith Emerson e Carl Palmer per formare il super trio Emerson, Lake & Palmer, il secondo ha creato un duo, McDonald and Giles, con Ian McDonald, il fenomenale polistrumentista che ha militato nei King Crimson ai tempi del loro esordio, mentre il terzo ha preferito dedicarsi ad altro diventando informatico); al loro posto sono stati ingaggiati Gordon Haskell (che oltre a cantare suona anche il basso) e Andy McCulloch (batteria). La voce di Haskell non regge il confronto con quella di Lake, ma tecnicamente il gruppo è ancora molto valido, anche perché Robert Fripp ha avuto la grande intuizione di avvalersi del contributo di musicisti eccellenti come Keith Tippett (raffinato pianista che ha già collaborato con il Re Cremisi nel loro secondo album suonando il piano da par suo in “Cadence and Cascade”, “Cat Food” e “The Devil’s Triangle”), Robin Miller (oboe e corno inglese), Mark Charig (cornetta) e Nick Evans (trombone). Il disco registrato dai “nuovi” Crimson è, per l’appunto, “Lizard”, che contiene cinque canzoni per una durata totale di quarantadue minuti e trenta secondi.

Robert Fripp

Robert Fripp

Il brano più bello e suggestivo dell’album è, indubbiamente, la title-track, una lunga e articolata suite divisa in quattro sezioni, “Prince Rupert Awakes”, “Bolero – The Peacock’s Tale”, “The Battle of Glass Tears” (che a sua volta è suddivisa in tre sottosezioni, “Dawn Song”, “Last Skirmish” e “Prince Rupert’s Lament”) e “Big Top”, che, oltre ad occupare l’intero lato B, nella prima parte ospita l’eterea voce di Jon Anderson degli Yes, che con la sua splendida ugola impreziosisce il primo movimento, che ha un testo (scritto da Peter Sinfield, abituale paroliere della band) incentrato sul Principe Rupert del Reno (nato e vissuto nel diciassettesimo secolo) e che presenta un ritornello tanto orecchiabile quanto trascinante. Successivamente entrano in scena la cornetta, l’oboe e il corno inglese, seguiti dal sax, dalla tromba e dal trombone, che tessono una melodia paradisiaca che segna il punto più alto raggiunto dal disco. La musica, in questo incantevole passaggio strumentale che tocca vette di assoluta poesia, è da pelle d’oca, l’esecuzione magistrale, e si vorrebbe che tale meraviglia non finisse mai. Dopo averci condotto in paradiso con questa melodia celestiale, i Crimson ci riportano sulla Terra con la voce spettrale di Haskell (e la differenza con Anderson si sente tutta, nel senso che il secondo surclassa il primo a mani basse), dopodiché irrompe il mellotron, che mena fendenti devastanti che preparano il terreno a uno straordinario assolo di chitarra ad opera di sua maestà Robert Fripp, che su un gelido tappeto sonoro formato dal basso e dai timpani offre l’ennesima dimostrazione del suo incredibile talento. Questo strepitoso e maestoso brano si chiude con una breve melodia circense che aumenta vieppiù di velocità. L’album non avrebbe potuto avere una conclusione migliore: basterebbe soltanto questa sublime composizione, infatti, per giustificare l’acquisto di “Lizard”, ma anche le altre tracce sono di alto livello e meritano di essere citate. Quella che dà il via alle danze, “Cirkus including Entry of the Chameleons”, è spettacolare, con il mellotron a dettar legge e la chitarra acustica a fare da controcanto (e qui Fripp ancora una volta dà il meglio di sé). Grande anche l’assolo di sassofono eseguito da un Mel Collins particolarmente ispirato.

Keith Tippett

Keith Tippett

“Indoor Games” e “Happy Family” sono due canzoni dal sapore jazz, tutt’altro che di facile presa, con una struttura melodica complessa ed elaborata. “Happy Family”, inoltre, ha un testo che parla dello scioglimento dei Beatles (“Happy Family, one hand clap, four went by and none came back”): i personaggi protagonisti delle liriche di Sinfield, Jonah, Judas, Silas e Rufus, sono infatti rispettivamente John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr (e se si osserva con attenzione la bellissima copertina del disco, disegnata dall’illustratrice Gini Barris, si scopre che dove c’è la “i” di “Crimson” ci sono raffigurati i Fab Four insieme a Yoko Ono). “Lady of the Dancing Water” chiude il lato A ed è un pezzo lento, dolce e sognante, che dura poco meno di tre minuti, in cui la voce di Haskell è accompagnata da una deliziosa chitarra acustica e da un flauto delicato e soave, egregiamente suonato da Mel Collins, che conferiscono alla melodia un suono magico che ha il potere di trasportare l’ascoltatore in un altro mondo. Può darsi che non abbiano tutti i torti coloro i quali ritengono che “Lizard” sia un disco arduo da comprendere e assimilare, ma da qui a considerarlo minore ce ne passa. Diciamo che probabilmente è il meno accessibile tra quelli che i King Crimson hanno inciso dal 1969 al 1974 (l’anno del fondamentale “Red”). Forse ha un unico punto debole: la voce di Haskell (che comunque non è così brutta come sostengono alcuni). A quarantacinque anni dalla sua pubblicazione, però, “Lizard” continua ad emanare un fascino irresistibile. E’ un album di alta caratura, che si situa tra jazz e rock, molto curato negli arrangiamenti e suonato con classe sopraffina (il pianismo di Tippett e il drumming di McCulloch sono eccezionali), che dopo tanti anni splende ancora di luce propria.

VOTO: 9/10

Guida ragionevole all’arte di Lester Bangs

La copertina di "Guida ragionevole al frastuono più atroce"

La copertina di “Guida ragionevole al frastuono più atroce”

Provocatorio, irriverente, sfrontato, stravagante, ribelle e anticonformista. Sono tanti gli aggettivi che si possono usare per definire Lester Bangs, ma se proprio dovessimo sceglierne uno solo, non avremmo dubbi e diremmo geniale. Bangs era un vulcano di idee: la sua professione era quella di critico musicale, ma la definizione di recensore gli andava decisamente stretta, dato che egli utilizzava le recensioni dei dischi come pretesto per scrivere dei racconti traboccanti di estro e fantasia. Era cresciuto nel culto di Jack Kerouac e William Burroughs, e leggendo i suoi articoli si capisce benissimo quanto stimasse gli autori della cosiddetta “Beat Generation”. Bangs, che alla carriera di giornalista aveva affiancato quella di musicista (ha suonato in alcuni gruppi, tra cui i Delinquents, con cui ha inciso un album, “Jook Savages on the Brazos” ) era nato il 14 dicembre 1948 a Escondido, in California, con il nome di Leslie Conway Bangs, ed è morto il 30 aprile 1982 a New York. E’ rimasto su questa Terra poco più di tre decenni, finché non se ne è andato in un mondo migliore. Ha vissuto velocemente e pericolosamente, Bangs; lui stesso non aveva mai fatto mistero di amare gli eccessi. Prendeva lo speed, trangugiava alcol e Romilar, faceva uso di anfetamine, anche se nell’ultimo anno della sua breve vita aveva cercato di darsi una ripulita. Purtroppo, un’overdose di Valium e Darvon se l’è portato via per sempre. Ha prestato la sua penna acuminata e salace per “Creem”, “Village Voice”, “New Musical Express” e “Rolling Stone”. Da quest’ultimo giornale è stato mandato via perché, secondo colui che l’ha fondato, Jann Wenner, trattava male i musicisti. C’era poco da fare, Bangs era fatto così: se un disco non gli piaceva, lo diceva senza giri di parole. Non era un allineato e non aveva peli sulla lingua. Soleva agire fuori dalle regole e dagli schemi. Odiava i paletti imposti dal sistema.

Lester Bangs

Lester Bangs

Il suo meglio, forse, lo ha dato negli anni in cui ha collaborato con “Creem”, rivista per cui ha scritto pezzi memorabili, come quelli che ha dedicato a Lou Reed, artista che venerava come un Dio ma con cui sovente finiva per litigare (le loro discussioni erano imperdibili). Dell’ex Velvet Underground adorava il controverso “Metal Machine Music” (uno di quei dischi che si amano o si odiano senza mezzi termini), di cui ha decantato le lodi in una splendida recensione. Oltre che per Lou Reed e i Velvet Underground (l’impressionante “White Light/White Heat” era uno dei suoi album preferiti), Lester andava matto anche per i Count Five, gli Yardbirds, i Troggs, Captain Beefheart, i Godz, gli Stooges e, in generale, per tutti quei gruppi e cantanti che facevano del rumore la loro cifra stilistica, mentre non sopportava chi se la tirava, come i Led Zeppelin e i Rolling Stones. Ha avuto parole di fuoco pure per Frank Zappa (“un essere spregevole che gli idioti chiamano sul serio “compositore” invece che “ladro di musica altrui”, una frattaglia umana ambulante, se ne è mai esistita una”) e James Taylor (che, come ha rivelato lui stesso in un articolo, avrebbe voluto uccidere). Diceva e scriveva sempre quello che pensava, Bangs, senza farsi condizionare da niente e nessuno. Mente libera e schiena dritta: era impossibile tenerlo a freno. Chiunque ci provasse falliva miseramente. “Guida ragionevole al frastuono più atroce” raccoglie alcuni dei tanti scritti che hanno contribuito a rendere Bangs un’icona immortale della scrittura. Se non lo conoscete, questo libro è un’ottima occasione per colmare una grave lacuna e per scoprire lo straordinario talento di un autore tagliente e imprevedibile che si può tranquillamente inserire nel novero dei grandi narratori americani di ogni tempo.

VOTO: 9/10

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