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Storie di fantasmi giapponesi

La locandina di "Kwaidan"

La locandina di “Kwaidan”

Alcuni film sono talmente innovativi da riuscire a sfuggire ad ogni tipo di classificazione. Una delle cose più belle del cinema è che quando crediamo di aver visto tutto, e perciò pensiamo che ormai non ci sia più niente in grado di sorprenderci veramente, improvvisamente ci capita di imbatterci in un film che ci smentisce clamorosamente, dimostrandoci così che nel mondo del cinema tutto è possibile e che si può sempre inventare qualcosa di nuovo che ha il potere di lasciare lo spettatore a bocca aperta. E di fronte alla bellezza e alla grandezza di questa pellicola diretta da Masaki Kobayashi, regista di capolavori come “Harakiri” (1962) e “L’ultimo samurai” (1967), si rimane davvero senza parole. “Kwaidan” (1964) è un horror straordinario, al punto che mai come in questo caso la definizione di horror appare quantomeno riduttiva. Perché in questa folgorante pellicola Kobayashi riesce a trascendere il genere fino ad arrivare a realizzare qualcosa di realmente unico e assoluto (le scene di battaglia del terzo episodio sono le più originali che si siano mai viste). Ispirandosi ai racconti di Koizumi Yakumo (scrittore greco di origine irlandese, nato come Lafcadio Hearn, che si trasferì in America in giovane età, per poi emigrare successivamente in Giappone, dove si naturalizzò con il sopracitato nome), Kobayashi mette in scena quattro episodi incentrati su altrettante storie di fantasmi. Nel primo, “I capelli neri”, un samurai (Rentaro Mikuni) ritorna dalla moglie (Michiyo Aratama) che aveva abbandonato: i due passano la notte insieme, ma al mattino successivo lui avrà una brutta sorpresa. Nel secondo, “La donna della neve”, due taglialegna, il vecchio Mosaku (Jun Hamamura) e il giovane apprendista Minokichi (Tatsuya Nakadai), dopo una dura giornata di lavoro passata a tagliare piante in un bosco, mentre si incamminano sulla strada di casa, vengono sorpresi da una tormenta di neve, a causa della quale sono costretti a rifugiarsi in una baracca sulla riva di un fiume; soltanto uno dei due riuscirà ad uscirne vivo. Nel terzo, ”Hoichi-senza-orecchie”, un giovane musicista cieco che suona la biwa, Hoichi (Katsuo Nakamura), rievoca le gesta della celebre e cruenta battaglia navale che si svolse a Dan-no-ura, nello stretto di Shimonoseki, nella quale si scontrarono i clan Heike e Genji; essendo non vedente, il ragazzo non si rende conto che è proprio per i fantasmi dei combattenti appartenenti al primo clan che ricorda il conflitto nel quale questi perirono sotto i potenti colpi dei rivali.

Keiko Kishi

Keiko Kishi

Nel quarto, ”In una tazza di tè”, nel primo giorno del quarto anno dell’era Tenwa, un samurai, Kannai (Kanemon Nakamura), al servizio del nobile Nakagawa Sado, mentre il reggimento di cui fa parte effettua una sosta al tempio di Hongo, si ritrova ossessionato dalla presenza di un uomo, Shikibu Heinai (Noboru Nakaya), di cui ha inghiottito lo spirito. Servendosi dell’ottima sceneggiatura di Yoko Mizuki, che delinea i caratteri dei personaggi in modo irreprensibile, Kobayashi gira un film di centosettantacinque minuti composto da quattro episodi autonomi e dalla durata variabile (il più lungo è il terzo, il più breve il quarto), in cui amore, morte, solitudine e follia si rincorrono senza soluzione di continuità. Attraverso uno stile di regia ricco di affascinanti e fluidi movimenti di macchina, il regista riesce a creare un’atmosfera magica e spettrale allo stesso tempo che incanta e inquieta profondamente lo spettatore. Introdotto da titoli di testa che da soli valgono la visione, continuamente in bilico tra realtà e incubo, “Kwaidan” (vincitore, nel 1965, del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e nominato agli Oscar, nel 1966, come Miglior Film Straniero), tra porte che si aprono da sole e chiome di capelli che fluttuano nell’aria, tra cieli che sembrano avere mille occhi e lugubri cimiteri popolati da spiriti, è un film mirabile, stupefacente, allucinato e allucinante, che si avvale di immagini sbalorditive che emanano una forza poderosa e un fascino rapinoso anche per merito delle magistrali e suggestive scenografie create da Shigemasa Toda e dell’incredibile e meravigliosa fotografia di Yoshio Miyajima (il secondo e il terzo episodio stupiscono per inventiva scenografica ed eleganza estetica). Da menzionare pure il fondamentale contributo del grande Toru Takemitsu, autore della splendida colonna sonora: la sua musica ipnotica è perfetta per sottolineare lo smarrimento progressivo che coglie i protagonisti delle varie storie, contribuendo in tal modo ad acuire l’inquietudine che pervade l’intera pellicola. Immaginifico, geniale, visionario, folle: “Kwaidan” fa parte di quella ristretta cerchia di film che, una volta visti, non si dimenticano più. Un’opera solenne e imperdibile.

VOTO: 10/10

 

Il buio nella mente

La locandina di "Repulsion"

La locandina di “Repulsion”

Dalla barca de “Il coltello nell’acqua” (1962) fino al teatro di “Venere in pelliccia” (2013), passando per l’abitazione di “Repulsion” (1965), il castello di “Cul-de-sac” (1966), il maniero di “Per favore non mordermi sul collo” (1967), lo stabile di “Rosemary’s Baby” (1968), il palazzo di “L’inquilino del terzo piano” (1976), la nave da crociera di “Luna di fiele” (1992), il cottage di “La morte e la fanciulla” (1994) e l’appartamento di “Carnage” (2011), Roman Polanski, classe 1933, nel corso della sua lunga e gloriosa carriera ha ampiamente dimostrato di essere perfettamente a suo agio nei set claustrofobici. E conoscendo questa sua predilezione per gli spazi chiusi, aumenta il rammarico per il fatto che egli non abbia mai ricavato una trasposizione cinematografica da “La metamorfosi” di Franz Kafka. Pensate un po’ a che film poteva uscire dal geniale testo dell’autore praghese, soprattutto se Polanski lo avesse realizzato nel suo periodo di forma migliore, ossia negli anni Sessanta e Settanta. Probabilmente ne sarebbe venuto fuori un capolavoro, o giù di lì. “Repulsion” è il secondo lungometraggio del regista polacco (il primo era “Il coltello nell’acqua”, uno degli esordi più fulminanti di tutti i tempi), e racconta l’inquietante storia di una giovane e affascinante estetista belga, Carol Ledoux (Catherine Deneuve), che soffre di dissociazione mentale e che risiede a Londra in un appartamento in affitto insieme alla sorella maggiore, Helen (Yvonne Furneaux), la quale ha una relazione sentimentale con un uomo sposato, Michael (Ian Hendry). Quando questi ultimi due decidono di andare in vacanza in Italia per una decina di giorni, Carol rimane a casa da sola, e la solitudine acuisce la sua schizofrenia a tal punto da farla sprofondare nella follia più totale. Fin dal folgorante incipit, in cui la cinepresa inquadra in primo piano l’occhio della Deneuve su cui compaiono i titoli di testa, con la scritta “Directed by Roman Polanski” che simula il taglio del bulbo oculare dell’attrice francese (un evidente omaggio alla celeberrima sequenza di apertura di “Un chien andalou”, 1929) con un movimento orizzontale da destra verso sinistra, capiamo due cose: la prima è che ci troviamo di fronte a un film superbo; la seconda è che Carol, quando l’inquadratura si allarga e vediamo il suo viso per intero, ha qualcosa che non va.

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Quel suo sguardo perso nel vuoto, infatti, non fa presagire nulla di buono, e nel giro di circa cento minuti avremo la conferma che avevamo ragione a sospettare che dietro agli occhi spenti della ragazza si celasse qualcosa di preoccupante. In trasferta in Inghilterra, Polanski (che oltre a sceneggiare a quattro mani con Gérard Brach appare brevemente nelle vesti di un suonatore di cucchiai) tratteggia un ritratto scioccante di una donna schizofrenica che odia gli uomini fino alla repulsione (da qui il titolo del film), e grazie alla straordinaria mobilità della macchina da presa, che si muove sempre sicura, dimostra come si possa fare cinema di altissimo livello all’interno di un appartamento, e quando si sofferma sul volto catatonico di Carol, è come se ci invitasse a penetrare negli oscuri meandri della mente malata della protagonista, la quale soffre di terribili allucinazioni (si immagina che le crepe squarcino i muri della sua casa e che dalle pareti escano delle braccia umane) e improvvisi attacchi di catalessi (come quando, nel memorabile inizio, fissa un punto indefinito davanti a sé tenendo nella sua mano quella di una cliente del centro estetico per cui lavora). La fotografia in bianco e nero di Gilbert Taylor crea un’atmosfera minacciosa, ben sottolineata dalle musiche di Chico Hamilton, e Catherine Deneuve, che interpreta con notevole intensità un ruolo complesso e sfaccettato, non è mai (più) stata così brava e convincente, nemmeno quando ha lavorato con quel genio di Luis Buñuel in “Bella di giorno” (1967) e in “Tristana” (1970).

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Sospeso tra realtà e immaginazione, attraversato da una tensione costante e pervaso da una profonda inquietudine, “Repulsion” (vincitore, nel 1965, dell’Orso d’argento al Festival di Berlino) è un film macabro e disturbante, ricco di momenti agghiaccianti (ne citiamo uno per tutti: l’omicidio compiuto a colpi di rasoio), che oscilla magistralmente tra il thriller e l’horror e che, mediante un crescendo drammatico esemplare, avviluppa lo spettatore in un vortice senza via d’uscita. Le scene indimenticabili sono tante, elencarle tutte sarebbe noioso, perciò ci limitiamo a ricordare quella in cui Carol parla con una sua collega che le dice di essersi divertita un mondo a vedere al cinema un film diretto e interpretato da Charlie Chaplin in cui quest’ultimo aveva talmente tanta fame da mangiare una scarpa, e in cui c’era un omone grande e grosso, anch’egli terribilmente affamato, che scambiava Charlot per una gallina (nella scena in questione il titolo del film di Chaplin non viene menzionato, ma è superfluo dire che si tratta di “La febbre dell’oro”, 1925). E’ probabile che Robert Altman si sia ispirato a questo magnifico film di Polanski quando, nel 1972, ha girato “Images”, un eccellente thriller psicologico con venature fantasy e horror che narra una vicenda per certi versi analoga a quella di “Repulsion”, così come è probabile che lo Stephen King di “Shining”, nel 1977, abbia preso dal suddetto film di Altman l’idea di ambientare in un luogo isolato (nel caso del romanziere un hotel, in quello del cineasta una casa di campagna) una storia che racconta di una graduale discesa nella paranoia. E per chiudere il cerchio delle somiglianze, la prodigiosa pellicola che Stanley Kubrick, nel 1980, ha tratto dal romanzo dello scrittore di Portland si conclude con una scena molto simile a quella con cui termina “Repulsion”. Com’è che diceva Pablo Picasso? “I mediocri imitano, i geni copiano”.

VOTO: 9/10

Nel labirinto della mente

La locandina di "Images"

La locandina di “Images”

Prendendo spunto da un racconto di Susannah York, “In Search of Unicorns” (che l’attrice pubblicherà nel 1973), nel 1972 Robert Altman realizza il film più sperimentale e anomalo di tutta la sua carriera: “Images”. Generalmente non viene considerato tra i lavori migliori del cineasta americano, ed è un peccato, perché stiamo parlando di un thriller psicologico davvero notevole e molto sottovalutato (soprattutto da Morando Morandini e Paolo Mereghetti, che nei loro dizionari gli hanno affibbiato voti piuttosto bassi che non rendono giustizia alla bellezza della pellicola) che scava in profondità nella psiche disturbata di una donna che progressivamente scivola nella follia. Cathryn è giovane, fa la scrittrice ed è sposata con Hugh (che nella versione italiana, non si sa bene per quale motivo, diventa Bob; misteri del doppiaggio). Un giorno, mentre è a casa da sola, inizia a ricevere strane telefonate in cui una voce femminile la informa che suo marito la tradisce con un’altra donna. Quando torna a casa, Hugh capisce che sua moglie è in preda a un forte esaurimento nervoso, perciò le propone di andare ad abitare per un po’ di tempo in un cottage immerso nel verde e nel silenzio della campagna irlandese. Lì, lontano da tutto e da tutti, lui intende dedicarsi alla caccia, lei, invece, alla stesura del libro a cui sta lavorando, “In Search of Unicorns”. In quell’abitazione isolata e priva di telefono, i due coniugi riceveranno la visita di un uomo, Marcel, accompagnato da sua figlia, Susannah, e Cathryn si ritroverà a dialogare con un fantasma, René. Altman (anche sceneggiatore) si affida a una messa in scena cupa ed enigmatica e costringe lo spettatore ad entrare nella mente malata di Cathryn, la quale, in un crescendo narrativo vertiginoso, confonde la realtà con l’immaginazione e viceversa. Guardando il film, a volte è difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è frutto della fantasia della protagonista; i piani narrativi si sovrappongono e si intersecano con una fluidità stupefacente, e il regista riesce a mescolare le carte in tavola con l’abilità di un giocatore professionista.

Susannah York

Susannah York

Nessun trucco e nessun inganno però, solo tanta maestria registica (i piani sequenza e le zoomate sono di una precisione millimetrica) e un uso sapiente della tecnica dell’overlapping, con le voci che si accavallano una sopra l’altra, e delle scenografie (curate da Leon Ericksen), con la casa di campagna, in cui si svolge gran parte della storia, e il paesaggio che la circonda che sembrano usciti direttamente da un film dell’orrore. Altman, in forma smagliante, firma un’opera angosciante e labirintica, nevrotica e claustrofobica, che si situa a metà strada tra Roman Polanski (per le similitudini con “Repulsion”, 1965, che narra anch’esso di una donna che soffre di schizofrenia) e Ingmar Bergman (per l’introspezione psicologica del personaggio principale) e che abbraccia generi diversi, dall’horror al thriller passando per il fantasy, formando un dedalo inestricabile in cui è facile perdere l’orientamento. “Images” è un incubo ad occhi aperti, è una lenta e inesorabile discesa negli abissi dell’inconscio che turba e sconvolge profondamente. La suspense e la tensione reggono dall’inizio alla fine senza cedimenti, e gli attori, a cominciare dall’eccezionale Susannah York (Cathryn), attorniata da un coro di ottime spalle composto da René Auberjonois (Hugh), Marcel Bozzuffi (René), Hugh Millais (Marcel) e Cathryn Harrison (Susannah), si calano benissimo nei loro ruoli. Pregevole l’apporto del reparto tecnico: l’ossessiva e straniante colonna sonora di John Williams e del percussionista Stomu Yamash’ta, la fotografia dai colori autunnali di Vilmos Zsigmond e il montaggio vorticoso di Graeme Clifford (che procede per analogie, come quando passa dall’acqua che scende dalla doccia a quella che scende dalla cascata) si rivelano fondamentali per l’esemplare riuscita del film. Incastonato tra due perle del calibro di “McCabe and Mrs. Miller” (1971) e “The Long Goodbye” (1973), “Images” è un puzzle complesso e articolato le cui tessere si incastrano alla perfezione. Per la sua intensa e magistrale prova, l’incantevole Susannah York vinse il Prix d’interprétation féminine al venticinquesimo Festival di Cannes.

VOTO: 8/10

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