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Un cane di nome Buck

La copertina de "Il richiamo della foresta"

La copertina de “Il richiamo della foresta”

Il cane, si sa, è il miglior amico dell’uomo. Purtroppo, però, non sempre l’uomo è il miglior amico del cane. E’ questa la lezione che Buck, il cane protagonista de “Il richiamo della foresta” di Jack London, impara sulla propria pelle. Buck, che ha quattro anni e pesa sessantotto chili, è figlio di un San Bernardo, Elmo, e di una cagna da pastore scozzese, Step, e vive nella lussuosa e sconfinata magione del giudice Miller, dove passa le giornate facendo compagnia al suo padrone e alla di lui famiglia. In quella casa, Buck viene trattato come un re, ma la sua tranquilla e agiata esistenza è destinata a cambiare radicalmente quando, una notte, uno dei giardinieri che lavorano nell’abitazione del giudice, Manuel, che ha il vizio di spendere i soldi del suo magro stipendio nel gioco del lotto cinese, lo rapisce per venderlo a un losco individuo. E così Buck, dopo essere stato costretto ad affrontare un lungo viaggio, finisce in Alaska, lui che non ha mai visto la neve in vita sua, dove si ritrova a fare il cane da slitta per due corrieri, Perrault e François. Gli esseri umani non fanno una bella figura, in questo stupendo racconto di London. Tranne qualche eccezione (come il giudice Miller e il cacciatore John Thornton), l’uomo si rivela un essere spregevole che non si fa nessuno scrupolo a maltrattare gli animali infliggendo loro atroci sofferenze. La simpatia dell’autore, naturalmente e giustamente, è tutta per Buck, il cane che di punto in bianco si vede stravolgere la vita e che, dopo aver imparato “la legge del bastone e della zanna”, dimostra di avere un coraggio da leone e una volontà di ferro che gli consentono di farsi rispettare dai suoi simili e anche di resistere a condizioni ambientali estreme come quelle che si trovano in Alaska. La figura di Buck si staglia imponente su tutte le altre, tanto da dominare incontrastata le pagine del libro, e la sua epica e commovente vicenda, raccontata da London con uno stile incisivo e privo di fronzoli, arriva a toccare il cuore del lettore attraverso una serie di momenti struggenti che farebbero piangere anche i sassi. Appassionante romanzo di avventura, coinvolgente storia di sopravvivenza, maestoso inno alla natura, alla libertà e alla convivenza civile tra uomini e animali, “Il richiamo della foresta” è una lettura obbligata.

VOTO: 10/10

The Queen Is Dead

La locandina di "Marie Antoinette"

La locandina di “Marie Antoinette”

(Attenzione, contiene spoiler) Sofia Coppola: pessima attrice (vedere per credere la sua disastrosa interpretazione nel terzo capitolo della saga del “Padrino”) ma ottima regista. “Marie Antoinette” è un’opera raffinata ed emozionante, visivamente sontuosa, in cui ogni dettaglio è curato alla perfezione, con la quale la figlia del grande Francis Ford Coppola chiude magnificamente un’ideale trilogia, cominciata con il pregevole “Il giardino delle vergini suicide” e proseguita con il delizioso “Lost in Translation”, dedicata alla cosiddetta “giovinezza inquieta”. La pellicola (basata su un libro di Antonia Fraser, “Maria Antonietta – La solitudine di una regina”) racconta – molto liberamente – la vita di Maria Antonietta, ossia l’austriaca che divenne la regina di Francia. La storia prende il via nel 1768, quando la Francia e l’Austria raggiungono, dopo lunghe ed estenuanti trattative, un accordo di pace: per rinsaldare l’armistizio siglato con tanta fatica, l’imperatrice Maria Teresa decide di dare in sposa al nipote di re Luigi XV, Luigi Augusto, una delle sue figlie, la quattordicenne Maria Antonietta. Per la ragazza il distacco dalla famiglia è doloroso, e l’impatto con la nuova realtà inevitabilmente traumatico. Sperduta e confusa, non appena mette piede nella reggia di Versailles mostra subito segni di insofferenza verso le rigide regole che l’etichetta le impone. Il matrimonio, poi, si rivela un fallimento, perché il marito è totalmente insensibile al suo fascino, cosa che rende problematica la nascita di un erede. Costretta a subire la pressione della madre, la quale vorrebbe che lei desse alla luce un bambino prima di sua cognata, la contessa di Provenza, Maria Antonietta, nel tentativo di dimenticare le ansie e i problemi che l’affliggono, si abbandona al lusso più sfrenato e ha un flirt con il conte Hans Axel von Fersen. La gente, nel frattempo, inizia a mormorare e i pettegolezzi sui due coniugi si sprecano.

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

La ragazza, ribelle e intollerante, sempre più annoiata dalla vita di corte, cova un odio profondo contro Madame du Barry, colei che ha il compito di sollazzare il vecchio re; la sopraggiunta morte di questi (per mano del vaiolo) costringe Maria Antonietta e il suo consorte a diventare i sovrani di Francia, con tutte le responsabilità del caso. Una condotta assai superficiale degli affari di Stato da parte dei due giovani sarà loro fatale: il popolo francese, che accusa la regina di sperperare i soldi per cose futili, stremato dalla fame e dalla fatica, scatena una rivolta che porterà alla morte di Maria Antonietta mediante ghigliottina il 16 ottobre del 1793. La Rivoluzione Francese si vede soltanto nei minuti finali, quasi come fosse un evento secondario (mentre mancano del tutto la prigionia, il processo e la pena di morte a cui fu sottoposta la regina; una scelta coraggiosa e controcorrente, che però ha fatto storcere il naso ad alcuni critici), perché quello che interessa maggiormente alla regista è mostrare la difficoltà di diventare grande e lo spaesamento di un’adolescente, strappata alla sua giovinezza da una genitrice che ha pensato bene di utilizzarla come strumento per rafforzare l’accordo di pace ottenuto con la Francia, che viene obbligata a crescere più in fretta del dovuto e ad abbandonare la sua casa e i suoi familiari per essere catapultata in un Paese straniero.

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Sofia Coppola e Kirsten Dunst

Nel raccontare ciò, la Coppola ritrova la sensibilità che permeava la sua opera prima, “Il giardino delle vergini suicide”, realizzando così un film che si muove, con finezza e tatto, sul confine invisibile che separa la giovinezza dall’età adulta, quel confine che Joseph Conrad chiamava “la linea d’ombra”, una linea tanto sottile e impercettibile quanto dolorosa e penosa, che Maria Antonietta sarà chiamata a superare anzitempo, scoprendo sulla propria pelle quanto possa essere amaro e faticoso oltrepassarla quando non si è ancora pronti per farlo. La regista, inoltre, si destreggia con grande abilità e suprema eleganza sia nelle enormi stanze della reggia di Versailles (un palazzo che conta ben 700 camere) che negli affascinanti giardini all’esterno del castello, componendo inquadrature accurate ed eleganti, dimostrando in questo modo di avere un talento non comune per l’immagine. Una biografia della regina di Francia non convenzionale, un bello schiaffo in faccia a tutti quei film in costume ingessati e senz’anima che non regalano alcuna emozione, perché realizzati da registi totalmente incapaci di infondere calore alle storie che narrano. “Marie Antoinette” trova la sua ragion d’essere nella libertà espressiva: è un’opera anticonformista, raccontata – intuizione geniale – a ritmo di rock, con brani di gruppi come Gang of Four (“Natural’s Not in It”, sparata sui titoli di testa, durante i quali vediamo Maria Antonietta degustare una torta con aria pigra e distratta), The Cure (“Plainsong” e “All Cats Are Grey”), Siouxsie and the Banshees (“Hong Kong Garden”), The Strokes (“What Ever Happened”) e New Order (“Ceremony”, sulle cui note si svolge la meravigliosa sequenza in cui la regina festeggia il suo compleanno).

Kirsten Dunst

Kirsten Dunst

Se il film possiede un fascino notevole, oltre che alla bravura della cineasta, lo si deve anche all’apporto impeccabile di tutto il reparto tecnico, con menzione particolare per i lussuosi costumi firmati da Milena Canonero (premiata con un meritato Oscar; per lei è il terzo dopo quelli ottenuti per “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick e “Momenti di gloria” di Hugh Hudson), ma sono parimenti degne di nota la suggestiva fotografia di Lance Acord e le ineccepibili scenografie curate da K. K. Barrett. Ragguardevole il cast (a parte Asia Argento, che interpreta Madame du Barry), nel quale compaiono gli ottimi Jason Schwartzman (Luigi XVI), Danny Huston (Giuseppe II del Sacro Romano Impero), Judy Davis (la contessa de Noailles), Marianne Faithfull (Maria Teresa d’Austria), Aurore Clément (la duchessa di Chartres) e Mathieu Amalric (in un piccolo ruolo: quello di un uomo al ballo in maschera); ma la prova che svetta su tutte le altre è sicuramente quella di Kirsten Dunst, ragazza dal viso angelico e dal corpo suadente che con la sua lucente presenza è in grado, da sola, di illuminare l’intera pellicola. Con questa eccellente interpretazione (indubbiamente la migliore della sua carriera), la Dunst si rivela una Maria Antonietta semplicemente perfetta. Infine, una curiosità: per poter avere nella colonna sonora del film tre canzoni dei Radio Dept., “Pulling Our Weight”, “I Don’t Like It Like This” e “Keen on Boys”, la regista ha dovuto svelare ai membri del gruppo cosa dice Bill Murray a Scarlett Johansson nel bellissimo finale di “Lost in Translation”. Cara Sofia (scusa se mi permetto di darti del tu): dal momento che, oltre ad essere un grande ammiratore dei tuoi film, pure io sono curioso di sapere cosa bisbigli il vecchio Bill all’orecchio della dolce Scarlett in quella struggente scena che scorre sulle ammalianti note di “Just Like Honey” dei Jesus and Mary Chain, perché non riveli anche a me quel segreto?

VOTO: 8/10

 

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