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Alla corte del Re Cremisi

La copertina di "In the Court of the Crimson King"

La copertina di “In the Court of the Crimson King”

Il 10 ottobre del 1969 è una data fondamentale per la musica. Quel giorno, infatti, i King Crimson pubblicarono il loro primo LP, “In the Court of the Crimson King”, vera e propria opera seminale che diede vita a un nuovo genere, il cosiddetto “progressive rock”, stabilendo di fatto un “prima” e un “dopo” come riescono a fare soltanto gli autentici capolavori. Per la verità, in precedenza ci avevano già provato altri gruppi (Procol Harum, Moody Blues, Nice) a spostare i confini del rock, ma per quanto apprezzabili, i loro dischi impallidivano al confronto con quello d’esordio del Re Cremisi. “In the Court of the Crimson King” è un album leggendario sin dalla copertina: una volta vista (specialmente nell’edizione in vinile), è impossibile dimenticarsela. Quel disegno, che raffigura un urlo agghiacciante (frutto della fantasia di Barry Godber, un programmatore informatico strappato alla vita da un attacco di cuore quando aveva solo ventiquattro anni), trasmette un’angoscia insostenibile, comparabile a quella che comunica il celebre “Urlo” di Edvard Munch. Un disco con una copertina così geniale non poteva che contenere grande musica. La prima formazione del Re Cremisi comprendeva Robert Fripp (chitarra), Greg Lake (basso e voce), Ian McDonald (flauto, mellotron, clarinetto, tastiere e vibrafono) e Michael Giles (batteria). Sul piano della tecnica strumentale, risulta difficile immaginare una formazione migliore di quella: quei quattro, insieme, erano una forza della natura, e per rendersene conto basta ascoltare la prima traccia, “21st Century Schizoid Man”, che ci stordisce con la chitarra aggressiva di Fripp, che esegue un riff prorompente come quelli di Tony Iommi dei Black Sabbath (il cui album d’esordio uscì qualche mese dopo quello dei King Crimson), il sax travolgente di McDonald, la batteria vertiginosa di Giles e la voce distorta di Lake, che infonde pathos all’apocalittico testo nato dalla penna di Peter Sinfield, paroliere dei primi quattro lavori della band.

Ian McDonald, Michael Giles, Peter Sinfield, Greg Lake e Robert Fripp

Ian McDonald, Michael Giles, Peter Sinfield, Greg Lake e Robert Fripp

Nella parte centrale il pezzo si allontana dal tema principale e Robert Fripp dà prova di tutta la sua bravura con un assolo folgorante che ha fatto scuola, al termine del quale ritornano il marziale giro di chitarra di Fripp, il veemente sax di McDonald, la frenetica batteria di Giles e il cantato distorto di Lake, che conducono il brano al gran finale in cui i quattro membri del gruppo, per la gioia di noi ascoltatori, spremono i loro strumenti al massimo. “21st Century Schizoid Man” è l’Apocalisse messa in musica, è il pezzo con il quale ogni gruppo progressive si è dovuto confrontare, ed è, inoltre, la perfetta dimostrazione di come si possano mescolare generi completamente diversi tra loro – ossia l’hard rock e il free jazz – facendoli convivere perfettamente senza che l’uno prevalga sull’altro. Genio allo stato puro. Si cambia totalmente atmosfera con la successiva canzone, “I Talk to the Wind”, che ha il potere di trasportarci in un mondo lontano con la sua melodia trasognata, creata dalla magica combinazione di flauto, oboe e vibrafono, e la voce calda e avvolgente di Lake, che ci conduce per mano nel viaggio interpretando con la giusta misura il poetico testo di Sinfield. Cascate di mellotron aprono “Epitaph”, un brano trascinante, epico e malinconico durante il quale Lake mette in mostra le sue notevoli doti canore, che gli consentono di passare dai toni bassi a quelli alti fino a toccare l’apice dell’estensione.

Robert Fripp

Robert Fripp

Splendido anche il testo, intriso di pessimismo, che contiene un verso, “Confusion will be my epitaph”, tra i migliori che Sinfield abbia mai scritto in tutta la sua vita. La seguente “Moonchild” è il pezzo più sperimentale, oscuro e controverso dell’album: i primi due minuti e mezzo sono un’affascinante ballata onirica in cui la voce di Lake è accompagnata dalla chitarra di Fripp e dalla batteria di Giles, dopodiché parte una lunga coda strumentale che per alcuni è il punto più alto raggiunto dal disco, mentre per altri è solo un riempitivo. Parere personale: “Moonchild” è una grande canzone, certamente non di facile ascolto, che ha il merito di portare la musica rock verso territori fino ad allora sconosciuti e inesplorati. Il compito di chiudere in bellezza questa pietra miliare spetta alla title track, la cui impalcatura sonora è sorretta da un mellotron talmente impetuoso da sembrare un fiume in piena pronto a tracimare da un momento all’altro. Impreziosisce il tutto il prodigioso flauto di McDonald, musicista dal talento cristallino, che in questo brano si produce in uno dei suoi assoli più riusciti. “In the Court of the Crimson King” è un album eclettico e raffinato, privo di punti deboli, suonato impeccabilmente e arrangiato con cura e precisione. Siamo, insomma, dalle parti della perfezione. Amato dagli appassionati, è un disco che ha tracciato un solco profondo nella musica, tanto da essere stato preso a modello da altri gruppi che, seguendo la lezione dei King Crimson, hanno creato a loro volta opere d’arte che hanno contribuito ad allargare gli orizzonti del rock.

VOTO: 10/10

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