Fino alla fine del mondo
(Attenzione, contiene spoiler) A modesto parere di chi scrive, Lars von Trier è il regista più ambizioso, arrogante, sopravvalutato, presuntuoso e antipatico della Storia del Cinema. Per alcuni è un maestro che realizza una meraviglia dietro l’altra, per altri uno sbruffone che invece di sedere dietro la macchina da presa sarebbe meglio se cambiasse mestiere. Come spesso succede in questi casi, la verità, probabilmente, sta nel mezzo: Trier non è un genio, ma non è neppure un incapace. E’ un abile e astuto provocatore che, nel bene e nel male, riesce sempre a far parlare di sé e a far credere a molti di essere più bravo di quanto non sia in realtà. Uno dei suoi difetti più grandi è quello di dire stupidaggini ogni volta che apre bocca, come quando, tra lo sconcerto dei presenti, durante la conferenza stampa di presentazione di “Melancholia” al Festival di Cannes 2011 rilasciò imbarazzanti e deliranti dichiarazioni antisemite che, giustamente, causarono la sua espulsione dalla manifestazione cannense. A noi, comunque, interessa il Trier regista, ossia quello che gira i film, belli o brutti che siano, non quello che spara cazzate a destra e a sinistra. “Melancholia” è un film diviso in due parti, la prima dedicata a Justine, la seconda a Claire, ovvero le protagoniste dell’opera in questione, che affronta temi impegnativi come la depressione e la fine del mondo. Justine è una ragazza che ha tutto quello che occorre per essere felice: è bella, ha un buon lavoro (da copywriter viene promossa dal suo capo ad art director) e si è appena sposata con un uomo, Michael, che l’ama alla follia. Ella, però, è afflitta da un disagio psichico che si acuisce in maniera esponenziale proprio nel giorno del suo matrimonio, e il fastoso ricevimento nuziale è inevitabilmente rovinato. Suo marito vorrebbe fare l’amore con lei, ma Justine lo respinge preferendo concedersi a un suo giovane collega che la segue ovunque lei vada. La festa finisce mestamente, e tutti se ne vanno a casa infelici e scontenti, compreso Michael, che da quel momento sparisce dal film per non vedersi mai più (a proposito: ma che fine fa?). Justine sta così male da non riuscire neanche a prendere un taxi da sola, e sua sorella, Claire, che insieme al suo consorte, John, si era fatta in quattro per organizzare il banchetto di nozze, decide di ospitarla nella sua lussuosa casa di campagna per prendersi cura di lei.
Comincia così la seconda parte del film, quella in cui il racconto si focalizza maggiormente su Claire e sull’imminente fine del mondo. C’è, infatti, un misterioso corpo celeste, Melancholia, che si sta avvicinando pericolosamente alla Terra. Se i due pianeti dovessero entrare in collisione, non ci sarà scampo per nessuno. John afferma che non c’è alcun pericolo di impatto, perciò dice ai suoi familiari di stare tranquilli, ma in realtà il primo ad aver paura che Melancholia possa schiantarsi contro la Terra è proprio lui, che quando capisce che ormai non c’è più nulla che si possa fare per evitare la catastrofe si uccide lasciando che la moglie, il figlio, Leo, e Justine affrontino impotenti la sciagura che spazzerà via tutto. Come detto all’inizio, Trier è un regista ambizioso ma dato che non è un genio come Béla Tarr o Terrence Malick non possiede gli strumenti adatti per sobbarcarsi l’ardua impresa di trattare nello stesso film questioni gravose come la depressione e la fine del mondo. E da una sceneggiatura scritta dallo stesso Trier, infatti, è nato un film squilibrato ma non privo di interesse. Dopo un prologo suggestivo e ipnotico, che in pochi minuti, sulle note del “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, riassume quello che ci verrà narrato in seguito (i detrattori del regista de “Le onde del destino” potrebbero dire che non era necessario allungare il brodo fino a superare le due ore), assistiamo a una prima parte abbastanza noiosa caratterizzata da dialoghi scontati e da scene prolisse e superflue, che sarebbe stato meglio tagliare in sede di montaggio, come quella in cui i due sposi, dopo essere convolati a nozze, rimangono bloccati con la limousine su cui viaggiano a causa dell’incapacità dell’autista di condurre il mezzo di trasporto.
Il ritmo sonnolento rischia di far cadere lo spettatore tra le braccia di Morfeo, ma incredibilmente, quando ormai si è quasi rassegnati a dover sorbire un’opera soporifera, nella seconda parte le banalità spariscono e la pellicola diventa intrigante. Trier si concentra su pochi personaggi (John, Claire, Leo e Justine) e riesce a creare un’atmosfera cupa e opprimente che turba e inquieta lo spettatore. Sul film aleggia l’ombra lunga di Andrej Tarkovskij: i richiami alle opere del maestro russo sono evidenti, a cominciare da “Sacrificio”, di cui “Melancholia”, pur essendo qualitativamente inferiore, condivide il tono apocalittico e la cadenza esistenziale e meditativa, e ci sono anche citazioni pittoriche, come quella de “I cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel, che Tarkovskij aveva citato in “Solaris” e “Andrej Rublëv”, che fanno tanto cinema d’autore e che sicuramente manderanno in visibilio gli ammiratori del regista danese. Nonostante l’evidente squilibrio tra la prima e la seconda parte, il film, bisogna ammetterlo, non lascia indifferenti. I pregi, seppur di poco, superano i difetti. Per quanto riguarda il cast, tra l’affascinante Kirsten Dunst (Justine) e la brava Charlotte Gainsbourg (Claire) convince di più la seconda, mentre Kiefer Sutherland (John) è il solito pesce lesso. Alcuni, esagerando, hanno affermato che “Melancholia” è qualcosa di unico e incredibile; ma è probabile che costoro non abbiano mai visto “Il cavallo di Torino” di Béla Tarr, che, vedere per credere, mette in scena l’Apocalisse con una radicalità visionaria che Lars von Trier nemmeno si sogna.
VOTO: 7/10
L’infanzia di Saša
(Attenzione, contiene spoiler) Dopo aver girato (con la collaborazione di Aleksandr Gordon e Marika Beiku), nel 1958, un interessante cortometraggio, “Gli assassini” (tratto da “The Killers” di Ernest Hemingway), e, l’anno seguente, un bel film per la televisione, “Oggi non ci sarà libera uscita” (diretto a quattro mani con il già citato Aleksandr Gordon), nel 1960 il ventottenne Andrej Arsenevič Tarkovskij realizza “Il rullo compressore e il violino”, pellicola con la quale lo stesso consegue il diploma nel corso di regia, presieduto da Mikhail Romm, presso la più importante, nonché la più antica del mondo, essendo stata fondata a Mosca nel 1919 da Vladimir Rostislavovič Gardin, scuola sovietica di cinema, il VGIK. Sceneggiato da Tarkovskij e da Andrej Sergeevič Michalkov-Končalovskij (anch’egli frequentatore del medesimo corso di regia seguito dal suo collega), questo delizioso film ha come protagonisti un bambino di sette anni, Saša (interpretato da un bravissimo Igor Fomčenko), che prende lezioni di violino al conservatorio, e un operaio, Sergej (Vladimir Zamanskij), che lavora su un rullo compressore per la pavimentazione stradale. A causa della sua passione per la musica, Saša viene ripetutamente deriso dai suoi coetanei, che si divertono a chiamarlo “Il Musicista” e a perseguitarlo sottoponendolo ad angherie sempre più pesanti, come quando arrivano ad impossessarsi con la forza del violino tanto caro al piccolo aspirante strumentista. Alla scena assiste Sergej, che pone fine alla prepotenza dei ragazzini. Ritornato in possesso dello strumento, Saša si reca al conservatorio per sostenere la tanto temuta prova d’esame di violino: la sua esibizione è un disastro, la maestra lo riprende più volte (“Non ti infervorare, Saša. Smettila di dondolarti. Ricomincia daccapo”. “Sei fuori ritmo! Che cos’hai? Ricomincia un’altra volta. Dai!”. “Conta, Saša! Bisogna contare. Un’altra volta”), ma nonostante gli ammonimenti ricevuti, lui continua a suonare male, e l’esito dell’esame è inevitabilmente negativo. Al termine della prova, l’insegnante, sconsolata, gli dice: “Che cosa devo fare con te, sognatore?”. Tornando verso casa, egli incontra di nuovo Sergej, che lo invita a provare a guidare il rullo compressore. Mentre gli altri ragazzini osservano invidiosi, tra Saša e Sergej si stabilisce un bellissimo rapporto di amicizia, destinato a durare per sempre.
Una storia semplice ma tutt’altro che banale (nei personaggi di Sergej e Saša, infatti, si scorge una metafora dell’Unione Sovietica sospesa tra un passato ingombrante e un futuro incerto), che ci insegna come l’amicizia possa superare le profonde differenze che contraddistinguono le persone, proprio come capita ai protagonisti di questo film. In poco meno di un’ora, il regista imbastisce una vicenda in cui contrappone, con un lirismo delicato, la fantasia di un bambino che sogna di diventare un musicista con il realismo di un operaio alle prese con il duro lavoro quotidiano. Questi due estremi si rincorrono continuamente per tutta la pellicola, senza annullarsi l’uno coll’altro, ma anzi andando armoniosamente di pari passo. E pensare che tale opera Tarkovskij la considerava importante soprattutto perché gli aveva dato l’opportunità di lavorare assieme all’operatore Vadim Jusov ed al compositore Viačeslav Ovčinnikov, mentre per il resto tendeva a sminuirne il valore. Sbagliando. Perché se è vero che questo mediometraggio sconta alcuni difetti (sia nella regia che nel montaggio, curato da Lyubov Butuzova), oltre che certuni personaggi non perfettamente delineati (soprattutto i bambini cattivi e l’operaio: i primi appaiono malvagi oltre misura, il secondo al contrario pecca di eccessiva bontà), è altrettanto vero che possiede pure molti pregi. Non sono pochi, infatti, i momenti in cui Tarkovskij sembra fare le prove generali per i successivi capolavori, in particolare per il modo in cui muove la cinepresa (splendidi i carrelli laterali), e anche per come dissemina il film di simboli (soprattutto quello dell’acqua, presente in varie forme: da quella piovana a quella di una fontanella, passando per quella contenuta nei bicchieri) che in futuro non mancheranno mai nei suoi lavori.
In alcune sequenze poi si vola decisamente alto, come quella in cui Saša costruisce un aeroplano di carta con il foglio dello spartito per comunicare al suo amico che, per colpa di sua madre che non gli ha concesso il permesso di uscire, non può andare con lui al cinema a vedere “Čapaev” di Sergej e Georgij Vasil’ev (il tanto lodevole quanto originale tentativo del bambino di avvertire il suo amico non andrà a buon fine, dato che il foglio finirà col cadere alle spalle dell’operaio mentre questi si sta allontanando dalla casa in cui abita il piccolo), o il poetico finale onirico (che anticipa quello, stupendo, de “L’infanzia di Ivan”, 1962), o ancora quella in cui il bambino suona davanti all’operaio. E’ difficile trovare le parole adatte per descrivere la bellezza di questa scena, specialmente a chi non l’ha mai vista: se per caso siete tra questi ultimi, vi basti sapere che, vedere Saša che si produce in un’esibizione con la quale tenta, a dispetto della sua acerba tecnica che non gli permette di esprimersi appieno, di effondere i propri sentimenti mediante le corde del suo amato violino, trattasi di un momento di grande cinema, magico e commovente a un tempo, che gonfia di emozione il cuore dello spettatore. Poesia pura, insomma, grazie anche al fondamentale contributo della bellissima colonna sonora di Viačeslav Ovčinnikov, che si unisce magistralmente alla musica generata dal violino creando così una melodia ricca di fascino che farebbe venire la pelle d’oca anche ai sassi, e alla notevole fotografia di Vadim Jusov, che si esalta particolarmente nel filmare i riflessi della luce del sole che inondano l’ambiente nel quale si svolge l’improvvisato concerto. Tale meravigliosa scena dimostra chiaramente che ci troviamo di fronte ad un autore dal talento immenso. A riprova di ciò, soltanto due anni dopo uscirà il primo straordinario capolavoro del maestro russo: “L’infanzia di Ivan” (anch’esso scritto dal regista stesso con la collaborazione di Andrej Končalovskij). Opera fenomenale, quella appena citata, cui seguiranno (purtroppo soltanto) altri sei lungometraggi (tre dei quali, però, autentiche pietre miliari: “Andrej Rublëv”, 1969, “Solaris”, 1972, e “Stalker”, 1979), che consacreranno Andrej Tarkovskij come uno dei più grandi cineasti della Storia del Cinema.
VOTO: 7/10