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Il lato oscuro della luna

La copertina di "The Dark Side of the Moon"

La copertina di “The Dark Side of the Moon”

Cosa si può dire ancora su “The Dark Side of the Moon” che non sia già stato detto? E’ uno dei dischi più analizzati, amati e ascoltati del mondo. Su di esso, nei quarantun anni che sono trascorsi dalla sua pubblicazione, sono stati versati fiumi di inchiostro, motivo per cui è un’impresa davvero ardua riuscire a scrivere qualcosa di nuovo e originale su questo magnifico album che ha venduto uno sproposito e che inoltre ha una copertina (su cui vi è raffigurato un prisma su sfondo nero penetrato da un fascio di luce per metà bianco e per metà color arcobaleno), ideata dal geniale Storm Thorgerson, tra le più belle e famose della Storia del Rock. Nel corso degli anni, “The Dark Side of the Moon” è stato ristampato più volte su CD, l’ultima delle quali nel 2011, quando è uscita una versione, denominata “Immersion Edition”, che comprende tre CD, due DVD, un Blu-ray, un libro di quaranta pagine e vari oggetti da collezione, che se non è definitiva, poco ci manca. Nel cofanetto in questione, tra esecuzioni live (nel secondo CD c’è l’intero album suonato dal vivo al Wembley Stadium nel 1974), remissaggi in multicanale, making of che ricostruiscono la genesi dell’LP e materiale da collezione (tra le altre cose, tre biglie, una sciarpa e nove sottobicchieri), c’è tanta di quella roba da soddisfare le aspettative degli ammiratori più esigenti della band inglese. Certo, il prezzo è alto, ma sono soldi ben spesi. Detto ciò, prendiamo la macchina del tempo e torniamo indietro fino al 1973, l’anno in cui finisce il protagonista dell’ottima serie televisiva britannica “Life on Mars”, ma non per parlare di quest’ultima o di David Bowie, bensì di “The Dark Side of the Moon”. I Pink Floyd sono un gruppo di culto che gode di un buon successo di pubblico e critica grazie ai sette dischi, la maggior parte dei quali notevoli, che hanno pubblicato a partire dal 1967, nel corso del quale è uscito il leggendario “The Piper at the Gates of Dawn”, e che attende di fare il botto definitivo che li farebbe entrare nell’empireo della musica dalla porta principale.

Rick Wright, David Gilmour, Nick Mason e Roger Waters

Rick Wright, David Gilmour, Nick Mason e Roger Waters

E quel botto, finalmente, arriva quando i Floyd, nel mese di marzo (il primo negli Stati Uniti, il 24 in Gran Bretagna), decidono di dare alle stampe il loro nuovo disco, “The Dark Side of the Moon”, che segna l’inizio della supremazia di Roger Waters sugli altri membri della band, con David Gilmour, Rick Wright e Nick Mason che vengono messi in secondo piano dal bassista, il quale firma le liriche di questo gioiello di rock psichedelico e progressivo, sempre più dispotico nei confronti dei suoi compagni di avventura, a cui spetta il compito di collaborare alla stesura delle musiche. Apre le danze “Speak to Me”, un breve collage di suoni e voci che fa da battistrada alla deliziosa melodia di “Breathe” (tra una canzone e l’altra non ci sono pause, in modo tale da formare un’unica composizione), il cui ritmo pacato ci culla dolcemente e ci conduce alla successiva “On the Run”, un brano strumentale dominato dal sintetizzatore, al termine del quale vi è la prima gemma del disco, “Time” (che nel finale contiene la ripresa di “Breathe”), in cui Wright e Gilmour si dividono le parti vocali, con il secondo che, inoltre, si produce in un assolo meraviglioso che si stampa indelebilmente nella memoria dell’ascoltatore. Stupendi anche il testo, annoverabile tra i migliori di Waters, che parla del tempo che passa senza che ce ne accorgiamo (“You are young and life is long and there is time to kill today / And then one day you find ten years have got behind you / No one told you when to run, you missed the starting gun / And you run and you run to catch up with the sun, but it’s sinking / And racing around to come up behind you again / The sun is the same in the relative way, but you’re older / Shorter of breath and one day closer to death”), e l’intro, con gli orologi a pendolo e le sveglie che suonano all’unisono generando un rumore fragoroso (grandioso il lavoro del tecnico del suono, Alan Parsons) e la chitarra, il basso, il piano elettrico e la batteria (bravissimo Nick Mason) che formano uno strato sonoro ammaliante, che costituisce uno dei momenti più alti di tutto l’album.

David Gilmour

David Gilmour

Non fa in tempo a finire questa meraviglia che subito ne parte un’altra: “The Great Gig in the Sky”, con il pianoforte e l’organo Hammond di Wright che disegnano una melodia emozionante sulla quale si inseriscono i sublimi vocalizzi di Clare Torry (che anni dopo chiederà ed otterrà di essere citata come coautrice del pezzo), che sembra simulare un orgasmo paradisiaco. Godimento allo stato puro. Giriamo il vinile (non dimenticate che siamo ancora nel 1973) e passiamo dal lato A al lato B, che comincia con il suono di un registratore di cassa: è l’inconfondibile attacco di “Money”, una delle canzoni più famose del gruppo, che presenta un giro di basso pazzesco e uno strepitoso Gilmour che si diverte come un matto a strapazzare la sua chitarra. La seguente “Us and Them”, introdotta da una suggestiva sequenza di accordi prodotta dall’organo Hammond, è una perla nata da un demo di Wright, alla cui riuscita contribuisce in modo fondamentale il sassofonista Dick Parry, il cui sax ci avvolge gentilmente donandoci calore come un cappotto indossato in pieno inverno. “Any Colour You Like”, per quanto sia interessante, è forse il pezzo più debole dell’album, che però torna a decollare con la splendida “Brain Damage”, un’ode alla follia (“The lunatic is on the grass”) sostenuta da un bellissimo arpeggio di chitarra, nel cui testo fa capolino la figura del mai dimenticato Syd Barrett (il verso “And if the band you’re in starts playing different tunes” è chiaramente riferito a lui). Il favoloso e mirabolante viaggio alla scoperta della luna si conclude sulle note dell’intensa “Eclipse”, e alla fine dell’ultima traccia una voce ci informa che “There is no dark side in the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look light is the sun”. Una volta finito l’ascolto veniamo presi dall’irrefrenabile voglia di far ripartire il disco daccapo. Completamente estasiati da tanta bellezza e bravura, non ci rimane altro che ringraziare Roger Waters, David Gilmour, Rick Wright e Nick Mason per averci regalato questa pietra miliare.

VOTO: 10/10

Gli Stones in esilio

La locandina di "Stones in Exile"

La locandina di “Stones in Exile”

“Nei primi anni ’70 eravamo giovani, belli e molto stupidi, ora siamo solo stupidi”. (Mick Jagger)

Diciamoci la verità: strumentalmente parlando, i Rolling Stones non sono mai stati un granché. Un buon bassista, Bill Wyman (che ha lasciato il gruppo nel 1993), un discreto batterista, Charlie Watts, e un chitarrista, Keith Richards, che sarà pure “l’imperatore del riff”, come ampiamente dimostrato dalla leggendaria “(I Can’t Get No) Satisfaction”, ma che quando si tratta di eseguire un assolo non è capace di produrne uno degno di questo nome (i mostri sacri della chitarra sono altri: Jimi Hendrix, David Gilmour, Robert Fripp, Tony Iommi e Jimmy Page, giusto per citarne alcuni), tanto è vero che la band ha sempre avuto un secondo chitarrista, da Brian Jones (morto, a soli 27 anni, in circostanze misteriose, il 3 Luglio del 1969) a Ron Wood, passando per il talentuoso Mick Taylor (che, prima di intraprendere un’oscura carriera solista, ha militato nel gruppo dal 1969 al 1974). Eppure, sebbene tecnicamente valgano la metà dei Led Zeppelin, dei Cream e degli Who, gli Stones sono considerati come una delle più grandi rock and roll band del mondo. Questo perché sono forse il gruppo che meglio di chiunque altro incarna lo spirito del rock and roll. Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo il loro esordio (il primo e omonimo album uscì nel 1964), si divertono come dei matti a suonare sui palchi di tutto il mondo. Alla faccia dell’età che avanza e, soprattutto, di chi vorrebbe mandarli in pensione. Di dischi memorabili, gli Stones, ne hanno fatti tanti. Difficile, quindi, stabilire quale sia il più bello. Chi scrive deve confessare di avere un debole per “Sticky Fingers” (1971), che oltre alle celeberrime “Brown Sugar” (grandioso il riff di chitarra), “Wild Horses” e “Sister Morphine” contiene pezzi fantastici del calibro di “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” e “Moonlight Mile”. Mica male, eh? Tutto quel ben di Dio in un album solo. Detto ciò, ci sono almeno altri cinque/sei album assolutamente degni di giocarsi il titolo di miglior disco delle Pietre Rotolanti. Uno è “Aftermath” (1966), che può vantare la chilometrica e blueseggiante “Going Home”, la dirompente e coinvolgente “Paint It, Black”, uno dei cavalli di battaglia del gruppo presente solo nella versione americana del disco, e la dolcissima e bellissima “Lady Jane”; in queste ultime due canzoni si rivela fondamentale il contributo offerto da Brian Jones, che nella prima si esibisce al sitar, mentre nella seconda è impegnato a suonare il dulcimer e il clavicembalo (era un polistrumentista, Brian Jones: chitarra, mellotron, clavicembalo, dulcimer, armonica, flauto, organo, theremin e sax sono solo alcuni dei tanti strumenti che sapeva suonare).

Keith Richards

Keith Richards

E “Beggars Banquet” (1968)? Cosa vogliamo dire di un disco che contiene almeno quattro gemme di valore assoluto quali “Sympathy for the Devil”, “No Expectations”, “Jigsaw Puzzle” e “Street Fighting Man”, se non che è eccezionale? Stesso discorso per “Let It Bleed” (1969), che può sfoggiare pezzi da novanta come “Gimme Shelter”, “Live with Me”, “Midnight Rambler” e “You Can’t Always Get What You Want”, superba ballata introdotta da un coro gospel da brividi. Merita una citazione pure lo sfortunato “Their Satanic Majesties Request” (1967), un bizzarro tentativo – riuscito per alcuni, fallimentare per altri – di rispondere a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il capolavoro dei Beatles uscito pochi mesi prima: in questo stravagante album psichedelico spicca la sublime “She’s a Rainbow”, sicuramente una delle composizioni più belle che la coppia Jagger-Richards ci abbia mai regalato, grazie anche al magico mellotron di Brian Jones, al delizioso pianoforte di Nicky Hopkins e allo splendido arrangiamento di archi, che insieme concorrono a creare una melodia rapinosa. E “Between the Buttons” (1967)? Possiamo dimenticarci di un disco (da alcuni ritenuto minore) che contiene due perle quali “Let’s Spend the Night Together” e “Ruby Tuesday”? Certo che no. Infine, non possiamo non menzionare “Exile on Main Street” (1972), indubbiamente il lavoro più complesso, sfuggente e ambizioso dell’intera carriera dei Rolling Stones, la cui genesi ci viene raccontata in questo bel documentario, presentato al Festival di Cannes 2010, diretto da Stephen Kijak, un onesto mestierante che fa il suo “sporco lavoro” limitandosi ad assemblare materiale d’epoca con interviste realizzate per l’occasione ai personaggi che lavorarono a quel disco: dai cinque membri della band ai vari musicisti di supporto, più alcuni ammiratori degli Stones come Martin Scorsese, Caleb Followill, Sheryl Crow e Benicio Del Toro (i cui interventi, alquanto scontati, sono la parte meno interessante del film). Scopriamo (ma i fan del gruppo molte cose già le sapevano) che gli Stones, nel ’71, a causa di problemi fiscali, decisero di trasferirsi, con mogli e figli al seguito, dall’Inghilterra alla Francia, malgrado nessuno di loro sapesse una sola parola di francese. Dopo essersi stabiliti in case diverse, Jagger, Watts, Taylor, Wyman e Richards si ritrovarono tutti quanti nell’abitazione che quest’ultimo prese in affitto nei dintorni di Nizza nell’aprile di quell’anno: Villa Nellcôte, una magnifica e sontuosa dimora realizzata nel diciannovesimo secolo, suddivisa in sedici stanze, con vista sul golfo di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra.

Mick Jagger

Mick Jagger

E fu così che, tra alcol e droga che scorrevano a fiumi, dopo aver scartato vari studi di registrazione che non li soddisfacevano minimamente, nelle enormi e umide cantine della magione di Richards, nacque “Exile on Main Street” (che in un primo momento si chiamava “Tropical Disease”), disco doppio (in vinile) prodotto dal fedele Jimmy Miller, registrato soprattutto nelle ore serali e notturne, composto da ben diciotto canzoni (di cui due cover: “Shake Your Hips” di Slim Harpo e “Stop Breaking Down” di Robert Johnson), le quali svariavano da un genere all’altro. Dal blues al soul, dal rock al funky, Jagger e Richards (che completarono il missaggio finale del disco ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles) non si fecero mancare niente, e ancora oggi, nonostante siano passati tanti anni, l’album in questione conserva tutta la sua originaria e lussureggiante bellezza, sciorinando un’impressionante serie di pezzi memorabili: “Sweet Virginia”, “Shine a Light” (che nel 2008 darà il titolo al meraviglioso film-concerto diretto da Martin Scorsese), “Rocks Off” (un brano trascinante sostenuto da una poderosa sezione di fiati), “Tumbling Dice” (forse la canzone più celebre del lotto) e “Let It Loose” sono le prime che vengono in mente, ma non sono certamente da meno le altre tredici tracce che compongono la tracklist di un LP favoloso, concepito e inciso in tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) e in condizioni tutt’altro che agevoli. Tra l’altro, nel 2010 “Exile” è stato ripubblicato in una versione deluxe che, oltre al disco originale, prevedeva un secondo CD contenente alcune canzoni rimaste (incredibilmente) inedite, tra cui la splendida “Plundered My Soul”. Forse poteva essere ancora più grande, “Exile on Main Street” (la rivista musicale “Rolling Stone” lo ha piazzato al settimo posto nella classifica dei cinquecento migliori album di sempre); ma anche così merita di concorrere per il titolo di più bel disco dei Rolling Stones, che successivamente, tra (molti) bassi e (pochi) alti, non sono stati più in grado di ripetersi agli stessi livelli. “Exile”, quindi, è l’ultimo capolavoro di una band che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno profondo nella Storia della Musica. Dal punto di vista cinematografico, “Stones in Exile” non è nulla di travolgente: tutto, infatti, scorre abbastanza prevedibilmente; la regia, coadiuvata da un buon montaggio, bada al sodo e il regista, senza strafare, confeziona un documentario piacevole che non mancherà di appassionare gli ammiratori del gruppo. Chi invece non apprezza gli Stones, può pure lasciare perdere.

VOTO: 7/10

 

Alla corte del Re Cremisi

La copertina di "In the Court of the Crimson King"

La copertina di “In the Court of the Crimson King”

Il 10 ottobre del 1969 è una data fondamentale per la musica. Quel giorno, infatti, i King Crimson pubblicarono il loro primo LP, “In the Court of the Crimson King”, vera e propria opera seminale che diede vita a un nuovo genere, il cosiddetto “progressive rock”, stabilendo di fatto un “prima” e un “dopo” come riescono a fare soltanto gli autentici capolavori. Per la verità, in precedenza ci avevano già provato altri gruppi (Procol Harum, Moody Blues, Nice) a spostare i confini del rock, ma per quanto apprezzabili, i loro dischi impallidivano al confronto con quello d’esordio del Re Cremisi. “In the Court of the Crimson King” è un album leggendario sin dalla copertina: una volta vista (specialmente nell’edizione in vinile), è impossibile dimenticarsela. Quel disegno, che raffigura un urlo agghiacciante (frutto della fantasia di Barry Godber, un programmatore informatico strappato alla vita da un attacco di cuore quando aveva solo ventiquattro anni), trasmette un’angoscia insostenibile, comparabile a quella che comunica il celebre “Urlo” di Edvard Munch. Un disco con una copertina così geniale non poteva che contenere grande musica. La prima formazione del Re Cremisi comprendeva Robert Fripp (chitarra), Greg Lake (basso e voce), Ian McDonald (flauto, mellotron, clarinetto, tastiere e vibrafono) e Michael Giles (batteria). Sul piano della tecnica strumentale, risulta difficile immaginare una formazione migliore di quella: quei quattro, insieme, erano una forza della natura, e per rendersene conto basta ascoltare la prima traccia, “21st Century Schizoid Man”, che ci stordisce con la chitarra aggressiva di Fripp, che esegue un riff prorompente come quelli di Tony Iommi dei Black Sabbath (il cui album d’esordio uscì qualche mese dopo quello dei King Crimson), il sax travolgente di McDonald, la batteria vertiginosa di Giles e la voce distorta di Lake, che infonde pathos all’apocalittico testo nato dalla penna di Peter Sinfield, paroliere dei primi quattro lavori della band.

Ian McDonald, Michael Giles, Peter Sinfield, Greg Lake e Robert Fripp

Ian McDonald, Michael Giles, Peter Sinfield, Greg Lake e Robert Fripp

Nella parte centrale il pezzo si allontana dal tema principale e Robert Fripp dà prova di tutta la sua bravura con un assolo folgorante che ha fatto scuola, al termine del quale ritornano il marziale giro di chitarra di Fripp, il veemente sax di McDonald, la frenetica batteria di Giles e il cantato distorto di Lake, che conducono il brano al gran finale in cui i quattro membri del gruppo, per la gioia di noi ascoltatori, spremono i loro strumenti al massimo. “21st Century Schizoid Man” è l’Apocalisse messa in musica, è il pezzo con il quale ogni gruppo progressive si è dovuto confrontare, ed è, inoltre, la perfetta dimostrazione di come si possano mescolare generi completamente diversi tra loro – ossia l’hard rock e il free jazz – facendoli convivere perfettamente senza che l’uno prevalga sull’altro. Genio allo stato puro. Si cambia totalmente atmosfera con la successiva canzone, “I Talk to the Wind”, che ha il potere di trasportarci in un mondo lontano con la sua melodia trasognata, creata dalla magica combinazione di flauto, oboe e vibrafono, e la voce calda e avvolgente di Lake, che ci conduce per mano nel viaggio interpretando con la giusta misura il poetico testo di Sinfield. Cascate di mellotron aprono “Epitaph”, un brano trascinante, epico e malinconico durante il quale Lake mette in mostra le sue notevoli doti canore, che gli consentono di passare dai toni bassi a quelli alti fino a toccare l’apice dell’estensione.

Robert Fripp

Robert Fripp

Splendido anche il testo, intriso di pessimismo, che contiene un verso, “Confusion will be my epitaph”, tra i migliori che Sinfield abbia mai scritto in tutta la sua vita. La seguente “Moonchild” è il pezzo più sperimentale, oscuro e controverso dell’album: i primi due minuti e mezzo sono un’affascinante ballata onirica in cui la voce di Lake è accompagnata dalla chitarra di Fripp e dalla batteria di Giles, dopodiché parte una lunga coda strumentale che per alcuni è il punto più alto raggiunto dal disco, mentre per altri è solo un riempitivo. Parere personale: “Moonchild” è una grande canzone, certamente non di facile ascolto, che ha il merito di portare la musica rock verso territori fino ad allora sconosciuti e inesplorati. Il compito di chiudere in bellezza questa pietra miliare spetta alla title track, la cui impalcatura sonora è sorretta da un mellotron talmente impetuoso da sembrare un fiume in piena pronto a tracimare da un momento all’altro. Impreziosisce il tutto il prodigioso flauto di McDonald, musicista dal talento cristallino, che in questo brano si produce in uno dei suoi assoli più riusciti. “In the Court of the Crimson King” è un album eclettico e raffinato, privo di punti deboli, suonato impeccabilmente e arrangiato con cura e precisione. Siamo, insomma, dalle parti della perfezione. Amato dagli appassionati, è un disco che ha tracciato un solco profondo nella musica, tanto da essere stato preso a modello da altri gruppi che, seguendo la lezione dei King Crimson, hanno creato a loro volta opere d’arte che hanno contribuito ad allargare gli orizzonti del rock.

VOTO: 10/10

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