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Gente di Dublino

La locandina di "Once"

La locandina di “Once”

Quando non è impegnato a guadagnarsi da vivere riparando gli aspirapolvere nel negozio gestito dal padre, un ragazzo appassionato di musica (Glen Hansard), dopo essere stato lasciato dalla fidanzata, sfoga la sua rabbia suonando la chitarra per le strade di Dublino. Il suo sogno è quello di trasferirsi a Londra, registrare un album e diventare un musicista professionista: un giorno incontra una ragazza straniera (Markéta Irglová), sposata e madre di una bambina, che proviene dalla Repubblica Ceca e che si mantiene vendendo fiori per le vie della città. Lei adora suonare il pianoforte, e i due decidono di unire le forze per comporre qualcosa insieme. “Once” è un piccolo e mediocre film che mostra una Dublino popolata da persone povere e modeste che si arrangiano come possono e che per tirare avanti svolgono anche i lavori più umili. Questo è senza dubbio l’unico aspetto interessante del film, che per il resto delude e annoia. Il tono generale è dimesso, il ritmo troppo lento, e la messa in scena è di una povertà che definire imbarazzante è poco (guardandolo, si vede chiaramente che è stato girato con un budget irrisorio). Le canzoni, poi, sono francamente troppe, e dopo un po’ non se ne può più di sentirle, anche perché i testi sono infarciti di frasi scontate e ovvie. Più che Stuart Murdoch e Isobel Campbell, o Damien Rice e Lisa Hannigan, i due protagonisti, con le loro canzoncine banalotte, sembrano Al Bano e Romina Power. Il che è tutto dire. Il volenteroso John Carney in cabina di regia ce la mette tutta per confezionare una pellicola gradevole e dignitosa, ma la buona volontà non basta per fare un bel film, e nonostante il regista riesca ad evitare la melassa, “Once” sconta una sceneggiatura (dello stesso Carney) esile e abborracciata. La storia funziona per un quarto d’ora, ma poi con il passare dei minuti subentra la monotonia e gli sbadigli si sprecano. Malgrado l’impegno del regista e degli attori, il risultato finale non arriva nemmeno alla sufficienza. “Once” non è una ciofeca come “(500) giorni insieme” di Marc Webb, è soltanto un filmetto innocuo e impalpabile che non lascia nessuna traccia nella memoria dello spettatore. Gli estimatori, comunque, non mancano, tanto che alcuni lo considerano un piccolo cult. Sorprendentemente, perfino un grande regista come Steven Spielberg ha speso parole di elogio nei confronti di quest’operina fragile e inconsistente. “Falling Slowly” di Glen Hansard e Markéta Irglová, nel 2008, ha vinto l’Oscar come Miglior Canzone.

VOTO: 5/10

Gli Stones in esilio

La locandina di "Stones in Exile"

La locandina di “Stones in Exile”

“Nei primi anni ’70 eravamo giovani, belli e molto stupidi, ora siamo solo stupidi”. (Mick Jagger)

Diciamoci la verità: strumentalmente parlando, i Rolling Stones non sono mai stati un granché. Un buon bassista, Bill Wyman (che ha lasciato il gruppo nel 1993), un discreto batterista, Charlie Watts, e un chitarrista, Keith Richards, che sarà pure “l’imperatore del riff”, come ampiamente dimostrato dalla leggendaria “(I Can’t Get No) Satisfaction”, ma che quando si tratta di eseguire un assolo non è capace di produrne uno degno di questo nome (i mostri sacri della chitarra sono altri: Jimi Hendrix, David Gilmour, Robert Fripp, Tony Iommi e Jimmy Page, giusto per citarne alcuni), tanto è vero che la band ha sempre avuto un secondo chitarrista, da Brian Jones (morto, a soli 27 anni, in circostanze misteriose, il 3 Luglio del 1969) a Ron Wood, passando per il talentuoso Mick Taylor (che, prima di intraprendere un’oscura carriera solista, ha militato nel gruppo dal 1969 al 1974). Eppure, sebbene tecnicamente valgano la metà dei Led Zeppelin, dei Cream e degli Who, gli Stones sono considerati come una delle più grandi rock and roll band del mondo. Questo perché sono forse il gruppo che meglio di chiunque altro incarna lo spirito del rock and roll. Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo il loro esordio (il primo e omonimo album uscì nel 1964), si divertono come dei matti a suonare sui palchi di tutto il mondo. Alla faccia dell’età che avanza e, soprattutto, di chi vorrebbe mandarli in pensione. Di dischi memorabili, gli Stones, ne hanno fatti tanti. Difficile, quindi, stabilire quale sia il più bello. Chi scrive deve confessare di avere un debole per “Sticky Fingers” (1971), che oltre alle celeberrime “Brown Sugar” (grandioso il riff di chitarra), “Wild Horses” e “Sister Morphine” contiene pezzi fantastici del calibro di “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” e “Moonlight Mile”. Mica male, eh? Tutto quel ben di Dio in un album solo. Detto ciò, ci sono almeno altri cinque/sei album assolutamente degni di giocarsi il titolo di miglior disco delle Pietre Rotolanti. Uno è “Aftermath” (1966), che può vantare la chilometrica e blueseggiante “Going Home”, la dirompente e coinvolgente “Paint It, Black”, uno dei cavalli di battaglia del gruppo presente solo nella versione americana del disco, e la dolcissima e bellissima “Lady Jane”; in queste ultime due canzoni si rivela fondamentale il contributo offerto da Brian Jones, che nella prima si esibisce al sitar, mentre nella seconda è impegnato a suonare il dulcimer e il clavicembalo (era un polistrumentista, Brian Jones: chitarra, mellotron, clavicembalo, dulcimer, armonica, flauto, organo, theremin e sax sono solo alcuni dei tanti strumenti che sapeva suonare).

Keith Richards

Keith Richards

E “Beggars Banquet” (1968)? Cosa vogliamo dire di un disco che contiene almeno quattro gemme di valore assoluto quali “Sympathy for the Devil”, “No Expectations”, “Jigsaw Puzzle” e “Street Fighting Man”, se non che è eccezionale? Stesso discorso per “Let It Bleed” (1969), che può sfoggiare pezzi da novanta come “Gimme Shelter”, “Live with Me”, “Midnight Rambler” e “You Can’t Always Get What You Want”, superba ballata introdotta da un coro gospel da brividi. Merita una citazione pure lo sfortunato “Their Satanic Majesties Request” (1967), un bizzarro tentativo – riuscito per alcuni, fallimentare per altri – di rispondere a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il capolavoro dei Beatles uscito pochi mesi prima: in questo stravagante album psichedelico spicca la sublime “She’s a Rainbow”, sicuramente una delle composizioni più belle che la coppia Jagger-Richards ci abbia mai regalato, grazie anche al magico mellotron di Brian Jones, al delizioso pianoforte di Nicky Hopkins e allo splendido arrangiamento di archi, che insieme concorrono a creare una melodia rapinosa. E “Between the Buttons” (1967)? Possiamo dimenticarci di un disco (da alcuni ritenuto minore) che contiene due perle quali “Let’s Spend the Night Together” e “Ruby Tuesday”? Certo che no. Infine, non possiamo non menzionare “Exile on Main Street” (1972), indubbiamente il lavoro più complesso, sfuggente e ambizioso dell’intera carriera dei Rolling Stones, la cui genesi ci viene raccontata in questo bel documentario, presentato al Festival di Cannes 2010, diretto da Stephen Kijak, un onesto mestierante che fa il suo “sporco lavoro” limitandosi ad assemblare materiale d’epoca con interviste realizzate per l’occasione ai personaggi che lavorarono a quel disco: dai cinque membri della band ai vari musicisti di supporto, più alcuni ammiratori degli Stones come Martin Scorsese, Caleb Followill, Sheryl Crow e Benicio Del Toro (i cui interventi, alquanto scontati, sono la parte meno interessante del film). Scopriamo (ma i fan del gruppo molte cose già le sapevano) che gli Stones, nel ’71, a causa di problemi fiscali, decisero di trasferirsi, con mogli e figli al seguito, dall’Inghilterra alla Francia, malgrado nessuno di loro sapesse una sola parola di francese. Dopo essersi stabiliti in case diverse, Jagger, Watts, Taylor, Wyman e Richards si ritrovarono tutti quanti nell’abitazione che quest’ultimo prese in affitto nei dintorni di Nizza nell’aprile di quell’anno: Villa Nellcôte, una magnifica e sontuosa dimora realizzata nel diciannovesimo secolo, suddivisa in sedici stanze, con vista sul golfo di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra.

Mick Jagger

Mick Jagger

E fu così che, tra alcol e droga che scorrevano a fiumi, dopo aver scartato vari studi di registrazione che non li soddisfacevano minimamente, nelle enormi e umide cantine della magione di Richards, nacque “Exile on Main Street” (che in un primo momento si chiamava “Tropical Disease”), disco doppio (in vinile) prodotto dal fedele Jimmy Miller, registrato soprattutto nelle ore serali e notturne, composto da ben diciotto canzoni (di cui due cover: “Shake Your Hips” di Slim Harpo e “Stop Breaking Down” di Robert Johnson), le quali svariavano da un genere all’altro. Dal blues al soul, dal rock al funky, Jagger e Richards (che completarono il missaggio finale del disco ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles) non si fecero mancare niente, e ancora oggi, nonostante siano passati tanti anni, l’album in questione conserva tutta la sua originaria e lussureggiante bellezza, sciorinando un’impressionante serie di pezzi memorabili: “Sweet Virginia”, “Shine a Light” (che nel 2008 darà il titolo al meraviglioso film-concerto diretto da Martin Scorsese), “Rocks Off” (un brano trascinante sostenuto da una poderosa sezione di fiati), “Tumbling Dice” (forse la canzone più celebre del lotto) e “Let It Loose” sono le prime che vengono in mente, ma non sono certamente da meno le altre tredici tracce che compongono la tracklist di un LP favoloso, concepito e inciso in tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) e in condizioni tutt’altro che agevoli. Tra l’altro, nel 2010 “Exile” è stato ripubblicato in una versione deluxe che, oltre al disco originale, prevedeva un secondo CD contenente alcune canzoni rimaste (incredibilmente) inedite, tra cui la splendida “Plundered My Soul”. Forse poteva essere ancora più grande, “Exile on Main Street” (la rivista musicale “Rolling Stone” lo ha piazzato al settimo posto nella classifica dei cinquecento migliori album di sempre); ma anche così merita di concorrere per il titolo di più bel disco dei Rolling Stones, che successivamente, tra (molti) bassi e (pochi) alti, non sono stati più in grado di ripetersi agli stessi livelli. “Exile”, quindi, è l’ultimo capolavoro di una band che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno profondo nella Storia della Musica. Dal punto di vista cinematografico, “Stones in Exile” non è nulla di travolgente: tutto, infatti, scorre abbastanza prevedibilmente; la regia, coadiuvata da un buon montaggio, bada al sodo e il regista, senza strafare, confeziona un documentario piacevole che non mancherà di appassionare gli ammiratori del gruppo. Chi invece non apprezza gli Stones, può pure lasciare perdere.

VOTO: 7/10

 

Una momentanea perdita della ragione

La copertina di

La copertina di “A Momentary Lapse of Reason”

Nel 1985 Roger Waters lascia i Pink Floyd, che si ritrovano così senza il loro membro più prolifico. In seguito all’allontanamento di Syd Barrett, Waters era progressivamente diventato il leader assoluto e indiscusso della band, tanto da mettere in ombra David Gilmour, Nick Mason e Rick Wright, ai quali la parte dei comprimari stava decisamente stretta. La separazione, però, è tutt’altro che indolore: Waters, infatti, asserisce che senza di lui i Pink Floyd non possono più esistere, mentre Gilmour e Mason sono del parere opposto (Wright, mandato via da Waters ai tempi di “The Wall”, 1979, è ancora fuori dal gruppo). La disputa finisce in tribunale, con Waters, sempre più preso da manie di grandezza, che vuole impedire ai suoi ex colleghi di continuare a chiamarsi Pink Floyd e questi ultimi che, semplicemente, desiderano seguitare a fare musica utilizzando il nome che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, li ha resi sempre più ricchi e famosi. Mentre si dibatte la causa relativa al marchio Pink Floyd, Gilmour e Mason fanno sapere di aver intenzione di registrare un nuovo album e, successivamente, di voler intraprendere una tournée in giro per il mondo (da cui verrà ricavato un doppio disco dal vivo, “Delicate Sound of Thunder”, 1988), che li porterà anche in Italia. Dopo una dura battaglia legale, Waters rinuncia al suo proposito, dando in questo modo via libera ai suoi ex compagni. In corso d’opera, Wright viene reclutato come collaboratore (ossia suona le tastiere ma non partecipa alla stesura delle canzoni), e i Floyd danno alla luce il non esaltante “A Momentary Lapse of Reason” (1987), un lavoro mediocre e scadente il cui ascolto non regala nessuna emozione.

Rick Wright, David Gilmour e Nick Mason

Rick Wright, David Gilmour e Nick Mason

E’ un disco piatto e ripetitivo, che segnala la preoccupante crisi creativa di un gruppo che in passato ha scritto pagine indelebili nella Storia del Rock, ma che dopo la pubblicazione, nel 1983, di “The Final Cut” (che, al contrario di “A Momentary Lapse of Reason”, vale molto, nonostante alcuni lo considerino un album minore nella discografia floydiana) sembra non avere più niente da dire. Gilmour prende in mano le redini della band ma dato che quest’ultimo non possiede lo spessore compositivo di Waters, la qualità delle canzoni è generalmente bassa, con pochissimi sprazzi degni di nota. Gilmour è un eccellente chitarrista (basti pensare allo splendido assolo finale di “Comfortably Numb”), tanto da essere (giustamente) considerato uno dei migliori di tutti i tempi, ma come autore è limitato, specialmente nella scrittura dei testi, da sempre il suo punto debole. Oltre a Gilmour, tra gli autori delle canzoni compaiono Phil Manzanera, Bob Ezrin, Anthony Moore e Patrick Leonard, ma a dispetto del loro contributo, i testi non spiccano per bellezza e originalità, e nemmeno le musiche riescono ad elevarsi oltre a un livello modesto, al punto che la noia la fa spesso da padrona. Gli unici pezzi che meritano di essere citati sono “Learning to Fly” (che ha un bel giro di chitarra), “On the Turning Away” (che ha una discreta melodia) e “Sorrow” (che ha un’impalcatura strumentale dignitosa), ma questi tre brani non bastano per salvare un album monotono e con poche idee, tranquillamente classificabile come il peggiore che i Pink Floyd abbiano mai inciso nella loro gloriosa carriera. La suggestiva copertina, che raffigura ottocento letti d’ospedale messi uno di fianco all’altro su una spiaggia, è frutto del genio di Storm Thorgerson. Lo storico gruppo inglese tornerà a dare segni di vita nel 1994, quando darà alle stampe l’interessante “The Division Bell”.

VOTO: 5/10

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