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La donna che non c’era

La locandina di "La donna fantasma"

La locandina di “La donna fantasma”

(Attenzione, contiene spoiler) Un uomo, Scott Henderson (Alan Curtis), e una donna, Ann Terry (Fay Helm), si conoscono in un bar di New York. Lui le propone di passare la serata insieme, lei accetta, ma ad una condizione: che entrambi non debbano rivelare all’altro né il proprio nome né il proprio indirizzo. Senza sapere niente l’uno dell’altra, Scott e Ann escono dal locale, prendono un taxi guidato da un tassista taciturno, Al Alp (Matt McHugh), vanno a teatro per assistere allo spettacolo di una famosa ballerina, Estela Monteiro (Aurora Miranda), che si esibisce con l’accompagnamento musicale di un gruppo di cui fa parte un batterista, Cliff Milburn (Elisha Cook Jr.), poi, al termine dell’esibizione, i due sconosciuti si lasciano. L’uomo torna a casa, e ad attenderlo trova la polizia. Gli agenti lo informano che sua moglie, Marcella, è stata strangolata, e lui è il principale sospettato dell’omicidio. Scott, di professione ingegnere, dichiara di essere innocente e che al momento del delitto si trovava fuori insieme a una donna che portava uno strano e voluminoso cappello, di cui però non sa il nome. L’ispettore Burgess (Thomas Gomez) interroga il barista, Mac (Andrew Tombes), del locale in cui Scott e Ann si sono incontrati, il tassista che li ha accompagnati a teatro, il batterista che ha suonato durante lo show e la ballerina che si è esibita sul palco, i quali confermano di aver visto Scott ma non la misteriosa donna con cui egli sostiene di essere stato in compagnia. Il signor Henderson è processato e condannato alla pena capitale: la sua segretaria, Carol Richman (Ella Raines), detta “Kansas”, inizia ad indagare per rintracciare colei che potrebbe scagionarlo. Nella vicenda viene coinvolto anche un amico di Scott, Jack Marlow (Franchot Tone), che aiuta Carol nella sua disperata ricerca. Traendo spunto dall’omonimo romanzo di William Irish (al secolo Cornell Woolrich), Robert Siodmak realizza un noir (sceneggiato da Bernard C. Schoenfeld) teso ed efficace che si avvale di una regia sopraffina. Il regista sfrutta al massimo le potenzialità del soggetto e, attraverso una messa in scena di grande classe ed eleganza, costruisce una serie di sequenze (Carol che pedina il barista, la jam session, l’assassino che spiega a una sua vittima le tante cose che si possono fare con le mani, tutte quelle in cui Carol non sa di avere a che fare con il killer, come quando lei è con lui nel teatro vuoto) pregne di tensione che rimangono impresse nella memoria.

Ella Raines e Franchot Tone

Ella Raines e Franchot Tone

Il tema dell’uomo innocente che viene ingiustamente accusato e condannato per un crimine che non ha commesso è svolto con consumata abilità e astuzia: Scott, benché sappia di essere totalmente estraneo al reato contestatogli, accetta passivamente il verdetto di colpevolezza, come se fosse il segno di una volontà superiore. Tocca alla sua segretaria farsi carico di ristabilire la verità: Carol, innamorata del suo datore di lavoro, si improvvisa investigatrice per dimostrare l’innocenza del suo capo, mettendo così a rischio la sua stessa vita; ma alla fine i suoi sforzi verranno premiati, dato che riuscirà a smascherare il responsabile della morte di Marcella e a conquistare il cuore dell’uomo di cui è invaghita (bella la scena in cui lei scopre che il suo amore per Scott è ricambiato). Curiosa l’assenza di una colonna sonora (l’azione non è accompagnata da nessuna musica), mentre l’ottima fotografia in bianco e nero di Elwood Bredell arricchisce il fascino di questo splendido noir firmato da un Siodmak in forma smagliante. Una menzione particolare va alle scenografie di Robert Clatworthy, che con un’intuizione geniale trasformano il parlatorio della prigione in un ring di pugilato. Nel cast spiccano la brava e sensuale Ella Raines, il cui sguardo ammalia e buca lo schermo (è un peccato che abbia smesso di recitare troppo presto), il nevrotico e inquietante Franchot Tone, che con il suo fare mellifluo mette i brividi, e il piccolo e viscido Elisha Cook Jr., che si vede poco ma che quando compare lascia sempre il segno. Avvincente e affascinante, stringato nei tempi e diretto con mano sicura, “La donna fantasma” (1944) è una delle punte più alte della filmografia di Siodmak, che annovera perle come “La scala a chiocciola” (1945), “Lo specchio scuro” (1946), “I gangsters” (1946) e “Doppio gioco” (1948).

VOTO: 8/10

Nella scia di Poseidone

La copertina di

La copertina di “In the Wake of Poseidon”

Un anno dopo aver esordito con il folgorante “In the Court of the Crimson King” (1969), uno degli album più influenti e fondamentali di sempre, i King Crimson danno alle stampe il loro secondo lavoro, “In the Wake of Poseidon” (1970), che ribadisce la grandezza del gruppo inglese proiettandolo definitivamente nel firmamento della musica mondiale. Rispetto alla formazione che ha inciso il primo album, però, c’è da segnalare la defezione del polistrumentista Ian McDonald, che viene sostituito egregiamente da Mel Collins, mentre il bassista e cantante Greg Lake rinuncia a suonare il suo strumento, che finisce nelle mani di Peter Giles (fratello del batterista Michael Giles), per dedicarsi solo alle parti vocali, tranne che nel caso di “Cadence and Cascade”, in cui Lake cede il microfono al meno convincente Gordon Haskell. Pur essendo un gradino sotto a “In the Court of the Crimson King”, “In the Wake of Poseidon” è un ottimo disco che ha il solo difetto di avere una prima facciata che somiglia un po’ troppo a quella del suo predecessore. Dopo una breve canzone, “Peace – A Beginning”, che non dura nemmeno un minuto, parte la furiosa “Pictures of a City”, che segue lo stesso schema di “21st Century Schizoid Man”: riff di chitarra aggressivo, cantato distorto, lunga parte centrale (durante la quale Robert Fripp sfoggia un assolo da urlo) in cui il pezzo divaga fino a prendere una forma totalmente diversa e ripresa del tema principale nel finale; è una gran bella canzone, “Pictures of a City”, malgrado non raggiunga i vertici del brano che apriva “In the Court of the Crimson King”.

Robert Fripp

Robert Fripp

La già citata “Cadence and Cascade” è una ballata sognante nello stile di “I Talk to the Wind”: come quest’ultima, infatti, anch’essa presenta una melodia dolce e tranquilla in cui spiccano il soave flauto di Mel Collins, che con questa splendida prova dimostra di essere un fiatista eccellente, tanto da non far rimpiangere Ian McDonald, e il sublime pianoforte di Keith Tippett, che impreziosisce il tutto con il suo tocco morbido e raffinato. Fripp si esibisce alla chitarra acustica e la voce di Gordon Haskell prende il posto di quella di Greg Lake: nel cambio ci si perde, perché come cantante il primo non vale il secondo, ma, nonostante ciò, la canzone si fa apprezzare per l’atmosfera soffusa e delicata che la permea. La title track è un pezzo epico e trascinante che riprende le sonorità di “Epitaph”, e anche questa volta la voce di Lake e il mellotron, suonato da Fripp con uno stile impetuoso, riescono a farci venire la pelle d’oca. “Peace – A Theme” è un breve strumentale eseguito alla chitarra acustica da Fripp (che da solo firma quasi tutte le musiche dell’album, mentre i testi sono di Peter Sinfield), dopo il quale c’è “Cat Food”, un brano dal ritmo contagioso che si avvale degli stupendi interventi pianistici di Keith Tippett e che si conclude con una coda strumentale che sconfina nel free jazz. Il mellotron torna ad essere assoluto protagonista in “The Devil’s Triangle”, uno strumentale debordante lungo quasi dodici minuti in cui Fripp usa e abusa dello strumento in questione per creare un’atmosfera oscura e minacciosa di grande effetto e in cui c’è spazio perfino per un’autocitazione tanto geniale quanto curiosa (a un certo punto, infatti, si sente un frammento della traccia che dava il titolo all’LP precedente della band). L’album si chiude con la delicata “Peace – An End”, le cui poetiche parole (il testo è uno dei più belli scaturiti dalla penna di Sinfield) sono cantate con trasporto da un Greg Lake in grande spolvero. Sebbene sia meno dirompente rispetto all’opera d’esordio del Re Cremisi, “In the Wake of Poseidon” è comunque un lavoro di eccelsa fattura che merita senz’altro un posto di rilievo nella discografia del gruppo.

VOTO: 9/10

Gli Stones in esilio

La locandina di "Stones in Exile"

La locandina di “Stones in Exile”

“Nei primi anni ’70 eravamo giovani, belli e molto stupidi, ora siamo solo stupidi”. (Mick Jagger)

Diciamoci la verità: strumentalmente parlando, i Rolling Stones non sono mai stati un granché. Un buon bassista, Bill Wyman (che ha lasciato il gruppo nel 1993), un discreto batterista, Charlie Watts, e un chitarrista, Keith Richards, che sarà pure “l’imperatore del riff”, come ampiamente dimostrato dalla leggendaria “(I Can’t Get No) Satisfaction”, ma che quando si tratta di eseguire un assolo non è capace di produrne uno degno di questo nome (i mostri sacri della chitarra sono altri: Jimi Hendrix, David Gilmour, Robert Fripp, Tony Iommi e Jimmy Page, giusto per citarne alcuni), tanto è vero che la band ha sempre avuto un secondo chitarrista, da Brian Jones (morto, a soli 27 anni, in circostanze misteriose, il 3 Luglio del 1969) a Ron Wood, passando per il talentuoso Mick Taylor (che, prima di intraprendere un’oscura carriera solista, ha militato nel gruppo dal 1969 al 1974). Eppure, sebbene tecnicamente valgano la metà dei Led Zeppelin, dei Cream e degli Who, gli Stones sono considerati come una delle più grandi rock and roll band del mondo. Questo perché sono forse il gruppo che meglio di chiunque altro incarna lo spirito del rock and roll. Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo il loro esordio (il primo e omonimo album uscì nel 1964), si divertono come dei matti a suonare sui palchi di tutto il mondo. Alla faccia dell’età che avanza e, soprattutto, di chi vorrebbe mandarli in pensione. Di dischi memorabili, gli Stones, ne hanno fatti tanti. Difficile, quindi, stabilire quale sia il più bello. Chi scrive deve confessare di avere un debole per “Sticky Fingers” (1971), che oltre alle celeberrime “Brown Sugar” (grandioso il riff di chitarra), “Wild Horses” e “Sister Morphine” contiene pezzi fantastici del calibro di “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” e “Moonlight Mile”. Mica male, eh? Tutto quel ben di Dio in un album solo. Detto ciò, ci sono almeno altri cinque/sei album assolutamente degni di giocarsi il titolo di miglior disco delle Pietre Rotolanti. Uno è “Aftermath” (1966), che può vantare la chilometrica e blueseggiante “Going Home”, la dirompente e coinvolgente “Paint It, Black”, uno dei cavalli di battaglia del gruppo presente solo nella versione americana del disco, e la dolcissima e bellissima “Lady Jane”; in queste ultime due canzoni si rivela fondamentale il contributo offerto da Brian Jones, che nella prima si esibisce al sitar, mentre nella seconda è impegnato a suonare il dulcimer e il clavicembalo (era un polistrumentista, Brian Jones: chitarra, mellotron, clavicembalo, dulcimer, armonica, flauto, organo, theremin e sax sono solo alcuni dei tanti strumenti che sapeva suonare).

Keith Richards

Keith Richards

E “Beggars Banquet” (1968)? Cosa vogliamo dire di un disco che contiene almeno quattro gemme di valore assoluto quali “Sympathy for the Devil”, “No Expectations”, “Jigsaw Puzzle” e “Street Fighting Man”, se non che è eccezionale? Stesso discorso per “Let It Bleed” (1969), che può sfoggiare pezzi da novanta come “Gimme Shelter”, “Live with Me”, “Midnight Rambler” e “You Can’t Always Get What You Want”, superba ballata introdotta da un coro gospel da brividi. Merita una citazione pure lo sfortunato “Their Satanic Majesties Request” (1967), un bizzarro tentativo – riuscito per alcuni, fallimentare per altri – di rispondere a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il capolavoro dei Beatles uscito pochi mesi prima: in questo stravagante album psichedelico spicca la sublime “She’s a Rainbow”, sicuramente una delle composizioni più belle che la coppia Jagger-Richards ci abbia mai regalato, grazie anche al magico mellotron di Brian Jones, al delizioso pianoforte di Nicky Hopkins e allo splendido arrangiamento di archi, che insieme concorrono a creare una melodia rapinosa. E “Between the Buttons” (1967)? Possiamo dimenticarci di un disco (da alcuni ritenuto minore) che contiene due perle quali “Let’s Spend the Night Together” e “Ruby Tuesday”? Certo che no. Infine, non possiamo non menzionare “Exile on Main Street” (1972), indubbiamente il lavoro più complesso, sfuggente e ambizioso dell’intera carriera dei Rolling Stones, la cui genesi ci viene raccontata in questo bel documentario, presentato al Festival di Cannes 2010, diretto da Stephen Kijak, un onesto mestierante che fa il suo “sporco lavoro” limitandosi ad assemblare materiale d’epoca con interviste realizzate per l’occasione ai personaggi che lavorarono a quel disco: dai cinque membri della band ai vari musicisti di supporto, più alcuni ammiratori degli Stones come Martin Scorsese, Caleb Followill, Sheryl Crow e Benicio Del Toro (i cui interventi, alquanto scontati, sono la parte meno interessante del film). Scopriamo (ma i fan del gruppo molte cose già le sapevano) che gli Stones, nel ’71, a causa di problemi fiscali, decisero di trasferirsi, con mogli e figli al seguito, dall’Inghilterra alla Francia, malgrado nessuno di loro sapesse una sola parola di francese. Dopo essersi stabiliti in case diverse, Jagger, Watts, Taylor, Wyman e Richards si ritrovarono tutti quanti nell’abitazione che quest’ultimo prese in affitto nei dintorni di Nizza nell’aprile di quell’anno: Villa Nellcôte, una magnifica e sontuosa dimora realizzata nel diciannovesimo secolo, suddivisa in sedici stanze, con vista sul golfo di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra.

Mick Jagger

Mick Jagger

E fu così che, tra alcol e droga che scorrevano a fiumi, dopo aver scartato vari studi di registrazione che non li soddisfacevano minimamente, nelle enormi e umide cantine della magione di Richards, nacque “Exile on Main Street” (che in un primo momento si chiamava “Tropical Disease”), disco doppio (in vinile) prodotto dal fedele Jimmy Miller, registrato soprattutto nelle ore serali e notturne, composto da ben diciotto canzoni (di cui due cover: “Shake Your Hips” di Slim Harpo e “Stop Breaking Down” di Robert Johnson), le quali svariavano da un genere all’altro. Dal blues al soul, dal rock al funky, Jagger e Richards (che completarono il missaggio finale del disco ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles) non si fecero mancare niente, e ancora oggi, nonostante siano passati tanti anni, l’album in questione conserva tutta la sua originaria e lussureggiante bellezza, sciorinando un’impressionante serie di pezzi memorabili: “Sweet Virginia”, “Shine a Light” (che nel 2008 darà il titolo al meraviglioso film-concerto diretto da Martin Scorsese), “Rocks Off” (un brano trascinante sostenuto da una poderosa sezione di fiati), “Tumbling Dice” (forse la canzone più celebre del lotto) e “Let It Loose” sono le prime che vengono in mente, ma non sono certamente da meno le altre tredici tracce che compongono la tracklist di un LP favoloso, concepito e inciso in tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) e in condizioni tutt’altro che agevoli. Tra l’altro, nel 2010 “Exile” è stato ripubblicato in una versione deluxe che, oltre al disco originale, prevedeva un secondo CD contenente alcune canzoni rimaste (incredibilmente) inedite, tra cui la splendida “Plundered My Soul”. Forse poteva essere ancora più grande, “Exile on Main Street” (la rivista musicale “Rolling Stone” lo ha piazzato al settimo posto nella classifica dei cinquecento migliori album di sempre); ma anche così merita di concorrere per il titolo di più bel disco dei Rolling Stones, che successivamente, tra (molti) bassi e (pochi) alti, non sono stati più in grado di ripetersi agli stessi livelli. “Exile”, quindi, è l’ultimo capolavoro di una band che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno profondo nella Storia della Musica. Dal punto di vista cinematografico, “Stones in Exile” non è nulla di travolgente: tutto, infatti, scorre abbastanza prevedibilmente; la regia, coadiuvata da un buon montaggio, bada al sodo e il regista, senza strafare, confeziona un documentario piacevole che non mancherà di appassionare gli ammiratori del gruppo. Chi invece non apprezza gli Stones, può pure lasciare perdere.

VOTO: 7/10

 

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