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Gli Stones in esilio

La locandina di "Stones in Exile"

La locandina di “Stones in Exile”

“Nei primi anni ’70 eravamo giovani, belli e molto stupidi, ora siamo solo stupidi”. (Mick Jagger)

Diciamoci la verità: strumentalmente parlando, i Rolling Stones non sono mai stati un granché. Un buon bassista, Bill Wyman (che ha lasciato il gruppo nel 1993), un discreto batterista, Charlie Watts, e un chitarrista, Keith Richards, che sarà pure “l’imperatore del riff”, come ampiamente dimostrato dalla leggendaria “(I Can’t Get No) Satisfaction”, ma che quando si tratta di eseguire un assolo non è capace di produrne uno degno di questo nome (i mostri sacri della chitarra sono altri: Jimi Hendrix, David Gilmour, Robert Fripp, Tony Iommi e Jimmy Page, giusto per citarne alcuni), tanto è vero che la band ha sempre avuto un secondo chitarrista, da Brian Jones (morto, a soli 27 anni, in circostanze misteriose, il 3 Luglio del 1969) a Ron Wood, passando per il talentuoso Mick Taylor (che, prima di intraprendere un’oscura carriera solista, ha militato nel gruppo dal 1969 al 1974). Eppure, sebbene tecnicamente valgano la metà dei Led Zeppelin, dei Cream e degli Who, gli Stones sono considerati come una delle più grandi rock and roll band del mondo. Questo perché sono forse il gruppo che meglio di chiunque altro incarna lo spirito del rock and roll. Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo il loro esordio (il primo e omonimo album uscì nel 1964), si divertono come dei matti a suonare sui palchi di tutto il mondo. Alla faccia dell’età che avanza e, soprattutto, di chi vorrebbe mandarli in pensione. Di dischi memorabili, gli Stones, ne hanno fatti tanti. Difficile, quindi, stabilire quale sia il più bello. Chi scrive deve confessare di avere un debole per “Sticky Fingers” (1971), che oltre alle celeberrime “Brown Sugar” (grandioso il riff di chitarra), “Wild Horses” e “Sister Morphine” contiene pezzi fantastici del calibro di “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” e “Moonlight Mile”. Mica male, eh? Tutto quel ben di Dio in un album solo. Detto ciò, ci sono almeno altri cinque/sei album assolutamente degni di giocarsi il titolo di miglior disco delle Pietre Rotolanti. Uno è “Aftermath” (1966), che può vantare la chilometrica e blueseggiante “Going Home”, la dirompente e coinvolgente “Paint It, Black”, uno dei cavalli di battaglia del gruppo presente solo nella versione americana del disco, e la dolcissima e bellissima “Lady Jane”; in queste ultime due canzoni si rivela fondamentale il contributo offerto da Brian Jones, che nella prima si esibisce al sitar, mentre nella seconda è impegnato a suonare il dulcimer e il clavicembalo (era un polistrumentista, Brian Jones: chitarra, mellotron, clavicembalo, dulcimer, armonica, flauto, organo, theremin e sax sono solo alcuni dei tanti strumenti che sapeva suonare).

Keith Richards

Keith Richards

E “Beggars Banquet” (1968)? Cosa vogliamo dire di un disco che contiene almeno quattro gemme di valore assoluto quali “Sympathy for the Devil”, “No Expectations”, “Jigsaw Puzzle” e “Street Fighting Man”, se non che è eccezionale? Stesso discorso per “Let It Bleed” (1969), che può sfoggiare pezzi da novanta come “Gimme Shelter”, “Live with Me”, “Midnight Rambler” e “You Can’t Always Get What You Want”, superba ballata introdotta da un coro gospel da brividi. Merita una citazione pure lo sfortunato “Their Satanic Majesties Request” (1967), un bizzarro tentativo – riuscito per alcuni, fallimentare per altri – di rispondere a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il capolavoro dei Beatles uscito pochi mesi prima: in questo stravagante album psichedelico spicca la sublime “She’s a Rainbow”, sicuramente una delle composizioni più belle che la coppia Jagger-Richards ci abbia mai regalato, grazie anche al magico mellotron di Brian Jones, al delizioso pianoforte di Nicky Hopkins e allo splendido arrangiamento di archi, che insieme concorrono a creare una melodia rapinosa. E “Between the Buttons” (1967)? Possiamo dimenticarci di un disco (da alcuni ritenuto minore) che contiene due perle quali “Let’s Spend the Night Together” e “Ruby Tuesday”? Certo che no. Infine, non possiamo non menzionare “Exile on Main Street” (1972), indubbiamente il lavoro più complesso, sfuggente e ambizioso dell’intera carriera dei Rolling Stones, la cui genesi ci viene raccontata in questo bel documentario, presentato al Festival di Cannes 2010, diretto da Stephen Kijak, un onesto mestierante che fa il suo “sporco lavoro” limitandosi ad assemblare materiale d’epoca con interviste realizzate per l’occasione ai personaggi che lavorarono a quel disco: dai cinque membri della band ai vari musicisti di supporto, più alcuni ammiratori degli Stones come Martin Scorsese, Caleb Followill, Sheryl Crow e Benicio Del Toro (i cui interventi, alquanto scontati, sono la parte meno interessante del film). Scopriamo (ma i fan del gruppo molte cose già le sapevano) che gli Stones, nel ’71, a causa di problemi fiscali, decisero di trasferirsi, con mogli e figli al seguito, dall’Inghilterra alla Francia, malgrado nessuno di loro sapesse una sola parola di francese. Dopo essersi stabiliti in case diverse, Jagger, Watts, Taylor, Wyman e Richards si ritrovarono tutti quanti nell’abitazione che quest’ultimo prese in affitto nei dintorni di Nizza nell’aprile di quell’anno: Villa Nellcôte, una magnifica e sontuosa dimora realizzata nel diciannovesimo secolo, suddivisa in sedici stanze, con vista sul golfo di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra.

Mick Jagger

Mick Jagger

E fu così che, tra alcol e droga che scorrevano a fiumi, dopo aver scartato vari studi di registrazione che non li soddisfacevano minimamente, nelle enormi e umide cantine della magione di Richards, nacque “Exile on Main Street” (che in un primo momento si chiamava “Tropical Disease”), disco doppio (in vinile) prodotto dal fedele Jimmy Miller, registrato soprattutto nelle ore serali e notturne, composto da ben diciotto canzoni (di cui due cover: “Shake Your Hips” di Slim Harpo e “Stop Breaking Down” di Robert Johnson), le quali svariavano da un genere all’altro. Dal blues al soul, dal rock al funky, Jagger e Richards (che completarono il missaggio finale del disco ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles) non si fecero mancare niente, e ancora oggi, nonostante siano passati tanti anni, l’album in questione conserva tutta la sua originaria e lussureggiante bellezza, sciorinando un’impressionante serie di pezzi memorabili: “Sweet Virginia”, “Shine a Light” (che nel 2008 darà il titolo al meraviglioso film-concerto diretto da Martin Scorsese), “Rocks Off” (un brano trascinante sostenuto da una poderosa sezione di fiati), “Tumbling Dice” (forse la canzone più celebre del lotto) e “Let It Loose” sono le prime che vengono in mente, ma non sono certamente da meno le altre tredici tracce che compongono la tracklist di un LP favoloso, concepito e inciso in tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) e in condizioni tutt’altro che agevoli. Tra l’altro, nel 2010 “Exile” è stato ripubblicato in una versione deluxe che, oltre al disco originale, prevedeva un secondo CD contenente alcune canzoni rimaste (incredibilmente) inedite, tra cui la splendida “Plundered My Soul”. Forse poteva essere ancora più grande, “Exile on Main Street” (la rivista musicale “Rolling Stone” lo ha piazzato al settimo posto nella classifica dei cinquecento migliori album di sempre); ma anche così merita di concorrere per il titolo di più bel disco dei Rolling Stones, che successivamente, tra (molti) bassi e (pochi) alti, non sono stati più in grado di ripetersi agli stessi livelli. “Exile”, quindi, è l’ultimo capolavoro di una band che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno profondo nella Storia della Musica. Dal punto di vista cinematografico, “Stones in Exile” non è nulla di travolgente: tutto, infatti, scorre abbastanza prevedibilmente; la regia, coadiuvata da un buon montaggio, bada al sodo e il regista, senza strafare, confeziona un documentario piacevole che non mancherà di appassionare gli ammiratori del gruppo. Chi invece non apprezza gli Stones, può pure lasciare perdere.

VOTO: 7/10

 

Guida ragionevole all’arte di Lester Bangs

La copertina di "Guida ragionevole al frastuono più atroce"

La copertina di “Guida ragionevole al frastuono più atroce”

Provocatorio, irriverente, sfrontato, stravagante, ribelle e anticonformista. Sono tanti gli aggettivi che si possono usare per definire Lester Bangs, ma se proprio dovessimo sceglierne uno solo, non avremmo dubbi e diremmo geniale. Bangs era un vulcano di idee: la sua professione era quella di critico musicale, ma la definizione di recensore gli andava decisamente stretta, dato che egli utilizzava le recensioni dei dischi come pretesto per scrivere dei racconti traboccanti di estro e fantasia. Era cresciuto nel culto di Jack Kerouac e William Burroughs, e leggendo i suoi articoli si capisce benissimo quanto stimasse gli autori della cosiddetta “Beat Generation”. Bangs, che alla carriera di giornalista aveva affiancato quella di musicista (ha suonato in alcuni gruppi, tra cui i Delinquents, con cui ha inciso un album, “Jook Savages on the Brazos” ) era nato il 14 dicembre 1948 a Escondido, in California, con il nome di Leslie Conway Bangs, ed è morto il 30 aprile 1982 a New York. E’ rimasto su questa Terra poco più di tre decenni, finché non se ne è andato in un mondo migliore. Ha vissuto velocemente e pericolosamente, Bangs; lui stesso non aveva mai fatto mistero di amare gli eccessi. Prendeva lo speed, trangugiava alcol e Romilar, faceva uso di anfetamine, anche se nell’ultimo anno della sua breve vita aveva cercato di darsi una ripulita. Purtroppo, un’overdose di Valium e Darvon se l’è portato via per sempre. Ha prestato la sua penna acuminata e salace per “Creem”, “Village Voice”, “New Musical Express” e “Rolling Stone”. Da quest’ultimo giornale è stato mandato via perché, secondo colui che l’ha fondato, Jann Wenner, trattava male i musicisti. C’era poco da fare, Bangs era fatto così: se un disco non gli piaceva, lo diceva senza giri di parole. Non era un allineato e non aveva peli sulla lingua. Soleva agire fuori dalle regole e dagli schemi. Odiava i paletti imposti dal sistema.

Lester Bangs

Lester Bangs

Il suo meglio, forse, lo ha dato negli anni in cui ha collaborato con “Creem”, rivista per cui ha scritto pezzi memorabili, come quelli che ha dedicato a Lou Reed, artista che venerava come un Dio ma con cui sovente finiva per litigare (le loro discussioni erano imperdibili). Dell’ex Velvet Underground adorava il controverso “Metal Machine Music” (uno di quei dischi che si amano o si odiano senza mezzi termini), di cui ha decantato le lodi in una splendida recensione. Oltre che per Lou Reed e i Velvet Underground (l’impressionante “White Light/White Heat” era uno dei suoi album preferiti), Lester andava matto anche per i Count Five, gli Yardbirds, i Troggs, Captain Beefheart, i Godz, gli Stooges e, in generale, per tutti quei gruppi e cantanti che facevano del rumore la loro cifra stilistica, mentre non sopportava chi se la tirava, come i Led Zeppelin e i Rolling Stones. Ha avuto parole di fuoco pure per Frank Zappa (“un essere spregevole che gli idioti chiamano sul serio “compositore” invece che “ladro di musica altrui”, una frattaglia umana ambulante, se ne è mai esistita una”) e James Taylor (che, come ha rivelato lui stesso in un articolo, avrebbe voluto uccidere). Diceva e scriveva sempre quello che pensava, Bangs, senza farsi condizionare da niente e nessuno. Mente libera e schiena dritta: era impossibile tenerlo a freno. Chiunque ci provasse falliva miseramente. “Guida ragionevole al frastuono più atroce” raccoglie alcuni dei tanti scritti che hanno contribuito a rendere Bangs un’icona immortale della scrittura. Se non lo conoscete, questo libro è un’ottima occasione per colmare una grave lacuna e per scoprire lo straordinario talento di un autore tagliente e imprevedibile che si può tranquillamente inserire nel novero dei grandi narratori americani di ogni tempo.

VOTO: 9/10

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