Isole
Con l’eccellente “Islands” (1971) la pregevole discografia dei King Crimson giunge al quarto capitolo di una brillante carriera che non conosce cali di ispirazione, nonostante i cambi di formazione siano sempre all’ordine del giorno in casa del gruppo inglese. Della band che l’anno precedente a questo lavoro ha registrato il magnifico “Lizard” (1970) sono rimasti soltanto Robert Fripp e Mel Collins: al loro fianco, infatti, non ci sono più il cantante e bassista Gordon Haskell e il batterista Andy McCulloch, ma Boz Burrell (voce e basso) e Ian Wallace (batteria). Confermati, invece, i musicisti che hanno collaborato alla realizzazione di “Lizard”, ossia i fiatisti Robin Miller e Mark Charig e il pianista Keith Tippett, ai quali si aggiunge l’apporto del contrabbassista Harry Miller, che con la loro classe sopraffina unita a un’abilità tecnica fuori dal comune risulteranno decisivi per la grande riuscita di “Islands”, un disco di una bellezza cristallina che consta di sei canzoni e che inoltre rappresenta l’ultima collaborazione tra i King Crimson e Peter Sinfield, autore degli splendidi testi di “In the Court of the Crimson King” (1969), “In the Wake of Poseidon” (1970) e del già citato “Lizard”, che qui presta la sua penna a Fripp e soci per la quarta e, appunto, ultima volta, scrivendo versi degni della sua fama. “Formentera Lady”, oltre a un bellissimo testo incentrato su un uomo che rimane stregato dal fascino misterioso di una donna (“Formentera Lady sing your song for me / Formentera Lady sweet lover”) che incontra passeggiando per l’isola spagnola e che tenta di legarlo a sé (“Formentera lady dance your dance for me / Formentera Lady dark lover”), ha una melodia celestiale che, tra la viola elettrica, il flauto, il pianoforte e la chitarra acustica, si dipana maestosa concludendosi con una lunga e suggestiva coda strumentale sulla quale si inseriscono i sublimi vocalizzi di un soprano, Paulina Lucas.
“Sailor’s Tale” è un teso e vibrante pezzo strumentale dominato dalla chitarra elettrica di Fripp, che con la sei corde si sbizzarrisce in acrobazie incredibili, e dal sax di Collins che, con l’ottimo contributo della batteria di Wallace, il quale, con questa notevole performance, dimostra di essere un egregio batterista, danno all’ascoltatore la terrificante sensazione di trovarsi a bordo di una minuscola barca nel bel mezzo di un mare in tempesta. “The Letters” è una canzone malinconica e rabbiosa allo stesso tempo (“As if a leper’s face / That tainted letter graced / The wife with choke-stone throat / Ran to the day with tear blind eyes”) e dalla struttura particolare, che comincia e finisce mestamente e con una parte centrale in cui il sax di Collins e la chitarra di Fripp creano un vortice sonoro dall’impatto devastante. “Ladies of the Road” parla delle groupies (“All of you know that the girls of the road / Are like apples you stole in your youth / All of you know that the girls of the road / Been around but are versed in the truth”) ed è il brano meno complesso e più lineare del lotto, ma risulta ugualmente coinvolgente grazie alla solita impeccabile prova di Fripp alla chitarra, ben spalleggiato dal resto del gruppo. Curiosa la somiglianza di questo bel pezzo con la famosa “Come Together” (1969) dei Beatles; per quanto possa sembrare strano, è probabile che la suddetta somiglianza non sia frutto di una mera coincidenza, ma di una scelta ben precisa da parte di colui che ha scritto la musica di “Ladies of the Road”, ossia Fripp. “Prelude: Song of the Gulls” è qualcosa di totalmente inaspettato, essendo una composizione per sola orchestra che, quindi, non prevede l’utilizzo di strumenti tipici del rock come la chitarra, il basso e la batteria, che in questo caso lasciano spazio agli archi e all’oboe, che la fanno da padroni dall’inizio alla fine, producendo una melodia paradisiaca (che purtroppo finirà nella colonna sonora di un brutto film di Bigas Luna, “Son de mar”, 2001).
La title-track chiude il disco e ne costituisce l’apice creativo ed emotivo, con tutti i membri dei King Crimson che si esprimono al meglio: Sinfield firma forse il testo più bello della sua vita (“Earth, stream and tree encircled by sea / Waves sweep the sand from my island / My sunsets fade / Field and glade wait only for rain / Grain after grain love erodes my / High weathered walls which fend off the tide / Cradle the wind / To my island”), Burrell rivela di possedere grandi doti canore, mentre Tippett con il suo pianoforte accompagna il canto etereo del vocalist con soave delicatezza; ma a rimanere stampato indelebilmente nella memoria dell’ascoltatore è lo struggente assolo finale di cornetta a opera di un ispiratissimo Charig, che su un sognante tappeto sonoro disegnato dal mellotron di Fripp cresce sempre più di intensità, facendo venire i brividi lungo la schiena e le lacrime agli occhi. Una conclusione meravigliosa, che raggiunge picchi di autentica commozione, per un album superbo, da alcuni incredibilmente sottovalutato, che ammalia e seduce con le sue sonorità avvolgenti e sinuose. La formazione dei King Crimson con Fripp alla chitarra e al mellotron, Burrell alla voce e al basso, Wallace alla batteria e Collins al flauto e al sax, però, dura poco, giusto il tempo di incidere questa gemma della musica mondiale e di fare un po’ di concerti in giro per il mondo. Questo formidabile gruppo, che non ha quasi nulla da invidiare alle precedenti incarnazioni del Re Cremisi né a quelle degli anni successivi, dopo “Islands” si scioglie e Fripp, rimasto solo, riforma la band reclutando nuovi musicisti di alto profilo, come il cantante e bassista John Wetton, il batterista Bill Bruford e il violinista David Cross, con i quali negli anni Settanta darà alle stampe tre dischi, “Larks’ Tongues in Aspic” (1973), “Starless and Bible Black” (1974) e “Red” (1974), che definire epocali è perfino riduttivo; ma questa, come diceva qualcuno, è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
VOTO: 10/10
Gli Stones in esilio
“Nei primi anni ’70 eravamo giovani, belli e molto stupidi, ora siamo solo stupidi”. (Mick Jagger)
Diciamoci la verità: strumentalmente parlando, i Rolling Stones non sono mai stati un granché. Un buon bassista, Bill Wyman (che ha lasciato il gruppo nel 1993), un discreto batterista, Charlie Watts, e un chitarrista, Keith Richards, che sarà pure “l’imperatore del riff”, come ampiamente dimostrato dalla leggendaria “(I Can’t Get No) Satisfaction”, ma che quando si tratta di eseguire un assolo non è capace di produrne uno degno di questo nome (i mostri sacri della chitarra sono altri: Jimi Hendrix, David Gilmour, Robert Fripp, Tony Iommi e Jimmy Page, giusto per citarne alcuni), tanto è vero che la band ha sempre avuto un secondo chitarrista, da Brian Jones (morto, a soli 27 anni, in circostanze misteriose, il 3 Luglio del 1969) a Ron Wood, passando per il talentuoso Mick Taylor (che, prima di intraprendere un’oscura carriera solista, ha militato nel gruppo dal 1969 al 1974). Eppure, sebbene tecnicamente valgano la metà dei Led Zeppelin, dei Cream e degli Who, gli Stones sono considerati come una delle più grandi rock and roll band del mondo. Questo perché sono forse il gruppo che meglio di chiunque altro incarna lo spirito del rock and roll. Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo il loro esordio (il primo e omonimo album uscì nel 1964), si divertono come dei matti a suonare sui palchi di tutto il mondo. Alla faccia dell’età che avanza e, soprattutto, di chi vorrebbe mandarli in pensione. Di dischi memorabili, gli Stones, ne hanno fatti tanti. Difficile, quindi, stabilire quale sia il più bello. Chi scrive deve confessare di avere un debole per “Sticky Fingers” (1971), che oltre alle celeberrime “Brown Sugar” (grandioso il riff di chitarra), “Wild Horses” e “Sister Morphine” contiene pezzi fantastici del calibro di “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” e “Moonlight Mile”. Mica male, eh? Tutto quel ben di Dio in un album solo. Detto ciò, ci sono almeno altri cinque/sei album assolutamente degni di giocarsi il titolo di miglior disco delle Pietre Rotolanti. Uno è “Aftermath” (1966), che può vantare la chilometrica e blueseggiante “Going Home”, la dirompente e coinvolgente “Paint It, Black”, uno dei cavalli di battaglia del gruppo presente solo nella versione americana del disco, e la dolcissima e bellissima “Lady Jane”; in queste ultime due canzoni si rivela fondamentale il contributo offerto da Brian Jones, che nella prima si esibisce al sitar, mentre nella seconda è impegnato a suonare il dulcimer e il clavicembalo (era un polistrumentista, Brian Jones: chitarra, mellotron, clavicembalo, dulcimer, armonica, flauto, organo, theremin e sax sono solo alcuni dei tanti strumenti che sapeva suonare).
E “Beggars Banquet” (1968)? Cosa vogliamo dire di un disco che contiene almeno quattro gemme di valore assoluto quali “Sympathy for the Devil”, “No Expectations”, “Jigsaw Puzzle” e “Street Fighting Man”, se non che è eccezionale? Stesso discorso per “Let It Bleed” (1969), che può sfoggiare pezzi da novanta come “Gimme Shelter”, “Live with Me”, “Midnight Rambler” e “You Can’t Always Get What You Want”, superba ballata introdotta da un coro gospel da brividi. Merita una citazione pure lo sfortunato “Their Satanic Majesties Request” (1967), un bizzarro tentativo – riuscito per alcuni, fallimentare per altri – di rispondere a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il capolavoro dei Beatles uscito pochi mesi prima: in questo stravagante album psichedelico spicca la sublime “She’s a Rainbow”, sicuramente una delle composizioni più belle che la coppia Jagger-Richards ci abbia mai regalato, grazie anche al magico mellotron di Brian Jones, al delizioso pianoforte di Nicky Hopkins e allo splendido arrangiamento di archi, che insieme concorrono a creare una melodia rapinosa. E “Between the Buttons” (1967)? Possiamo dimenticarci di un disco (da alcuni ritenuto minore) che contiene due perle quali “Let’s Spend the Night Together” e “Ruby Tuesday”? Certo che no. Infine, non possiamo non menzionare “Exile on Main Street” (1972), indubbiamente il lavoro più complesso, sfuggente e ambizioso dell’intera carriera dei Rolling Stones, la cui genesi ci viene raccontata in questo bel documentario, presentato al Festival di Cannes 2010, diretto da Stephen Kijak, un onesto mestierante che fa il suo “sporco lavoro” limitandosi ad assemblare materiale d’epoca con interviste realizzate per l’occasione ai personaggi che lavorarono a quel disco: dai cinque membri della band ai vari musicisti di supporto, più alcuni ammiratori degli Stones come Martin Scorsese, Caleb Followill, Sheryl Crow e Benicio Del Toro (i cui interventi, alquanto scontati, sono la parte meno interessante del film). Scopriamo (ma i fan del gruppo molte cose già le sapevano) che gli Stones, nel ’71, a causa di problemi fiscali, decisero di trasferirsi, con mogli e figli al seguito, dall’Inghilterra alla Francia, malgrado nessuno di loro sapesse una sola parola di francese. Dopo essersi stabiliti in case diverse, Jagger, Watts, Taylor, Wyman e Richards si ritrovarono tutti quanti nell’abitazione che quest’ultimo prese in affitto nei dintorni di Nizza nell’aprile di quell’anno: Villa Nellcôte, una magnifica e sontuosa dimora realizzata nel diciannovesimo secolo, suddivisa in sedici stanze, con vista sul golfo di Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra.
E fu così che, tra alcol e droga che scorrevano a fiumi, dopo aver scartato vari studi di registrazione che non li soddisfacevano minimamente, nelle enormi e umide cantine della magione di Richards, nacque “Exile on Main Street” (che in un primo momento si chiamava “Tropical Disease”), disco doppio (in vinile) prodotto dal fedele Jimmy Miller, registrato soprattutto nelle ore serali e notturne, composto da ben diciotto canzoni (di cui due cover: “Shake Your Hips” di Slim Harpo e “Stop Breaking Down” di Robert Johnson), le quali svariavano da un genere all’altro. Dal blues al soul, dal rock al funky, Jagger e Richards (che completarono il missaggio finale del disco ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles) non si fecero mancare niente, e ancora oggi, nonostante siano passati tanti anni, l’album in questione conserva tutta la sua originaria e lussureggiante bellezza, sciorinando un’impressionante serie di pezzi memorabili: “Sweet Virginia”, “Shine a Light” (che nel 2008 darà il titolo al meraviglioso film-concerto diretto da Martin Scorsese), “Rocks Off” (un brano trascinante sostenuto da una poderosa sezione di fiati), “Tumbling Dice” (forse la canzone più celebre del lotto) e “Let It Loose” sono le prime che vengono in mente, ma non sono certamente da meno le altre tredici tracce che compongono la tracklist di un LP favoloso, concepito e inciso in tre nazioni diverse (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) e in condizioni tutt’altro che agevoli. Tra l’altro, nel 2010 “Exile” è stato ripubblicato in una versione deluxe che, oltre al disco originale, prevedeva un secondo CD contenente alcune canzoni rimaste (incredibilmente) inedite, tra cui la splendida “Plundered My Soul”. Forse poteva essere ancora più grande, “Exile on Main Street” (la rivista musicale “Rolling Stone” lo ha piazzato al settimo posto nella classifica dei cinquecento migliori album di sempre); ma anche così merita di concorrere per il titolo di più bel disco dei Rolling Stones, che successivamente, tra (molti) bassi e (pochi) alti, non sono stati più in grado di ripetersi agli stessi livelli. “Exile”, quindi, è l’ultimo capolavoro di una band che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno profondo nella Storia della Musica. Dal punto di vista cinematografico, “Stones in Exile” non è nulla di travolgente: tutto, infatti, scorre abbastanza prevedibilmente; la regia, coadiuvata da un buon montaggio, bada al sodo e il regista, senza strafare, confeziona un documentario piacevole che non mancherà di appassionare gli ammiratori del gruppo. Chi invece non apprezza gli Stones, può pure lasciare perdere.
VOTO: 7/10