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La lunga strada della noia

La locandina di "Highwaymen"

La locandina di “Highwaymen”

Ve lo ricordate “The Hitcher”? Era quel film in cui un ragazzo dava un passaggio a uno sconosciuto che in seguito si rivelava essere un pericoloso assassino psicopatico che si divertiva a perseguitare il povero protagonista lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Era il 1986 e quell’inquietante thriller segnava il brillante e promettente esordio nella regia di Robert Harmon, che però successivamente non ha più azzeccato un film. Nel 2003, quasi due decenni dopo quel thriller sconvolgente interpretato da un giovane Chris Thomas Howell e da un Rutger Hauer in stato di grazia, Harmon ha provato a tornare sulla strada per realizzare “Highwaymen”, un film che riprende lo schema narrativo di “The Hitcher”, che prevede tre personaggi (due uomini e una donna) al centro della storia, forse nella speranza di ritrovare l’ispirazione dei vecchi tempi, quella che gli aveva consentito di debuttare alla grande dietro alla macchina da presa, ma il risultato è scialbo e deludente. “Highwaymen” sa di minestra riscaldata, e non è nemmeno lontanamente paragonabile a “The Hitcher”. La trama è presto detta: cinque anni dopo aver perso la moglie, investita e uccisa da un pirata della strada, Rennie Cray (James Caviezel) è alla ricerca dell’automobilista responsabile della morte della sua consorte, James Fargo (Colm Feore), che, con la sua Cadillac Fleetwood Eldorado del 1972, continua a mietere vittime spostandosi da un posto all’altro degli Stati Uniti per sfuggire alla polizia. Dopo tanto girovagare, Rennie, a bordo della sua rombante Plymouth Barracuda Super Stock Hemi del 1968, riesce finalmente a trovare l’uomo che stava cercando da tanto tempo, e da quel momento pensa soltanto a consumare la sua vendetta con l’aiuto di una donna, Molly Poole (Rhona Mitra), finita nel mirino del guidatore psicopatico dopo essere uscita viva da un tamponamento a catena in una galleria causato dal serial killer a quattro ruote, che ha approfittato della situazione per travolgere e uccidere con la propria macchina una ragazza, Alexandra Farrow (Andrea Roth), che stava viaggiando insieme a Molly.

Rhona Mitra

Rhona Mitra

Il problema di “Highwaymen” non è tanto la pochezza della trama, dato che si può fare un bel film anche con una storia pressoché inesistente (come, ad esempio, il folgorante “Interceptor”, 1979, di George Miller), né lo scarso spessore dei personaggi, che qui è quasi pari allo zero (Rennie e Molly sono entrambi segnati da un lutto: il primo è accecato dalla rabbia e non vede l’ora di farsi giustizia da sé, mentre la seconda vuole solo dimenticare; ma non aspettatevi chissà quale approfondimento psicologico), ma la piattezza della regia, che non riesce a infondere ritmo alla vicenda, un difetto non da poco per un film che si basa esclusivamente sull’azione. Neanche il montaggio (di Chris Peppe) riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore, che durante la visione di questo scontato ed elementare thrillerino, che per fortuna dura appena ottanta minuti, corre il rischio di assopirsi. I cinefili più attenti non potranno non notare i riferimenti a “Duel” (1971) di Steven Spielberg e a “La macchina nera” (1977) di Elliot Silversten, ma le citazioni provenienti dai film del passato non bastano per nobilitare una pellicola fiacca e senza nerbo che gira a vuoto, senza ingranare mai la marcia giusta. Il sottotitolo italiano di “The Hitcher” era “La lunga strada della paura”, quello di “Highwaymen”, invece, “I banditi della strada”, ma, visto che in quest’ultimo il tedio regna sovrano, sarebbe stato più appropriato intitolarlo “La lunga strada della noia”. Insoddisfacente sia sul piano della sceneggiatura che su quello della regia, “Highwaymen” è un action movie dallo svolgimento banale, un thriller senza tensione con attori monoespressivi e con un finale talmente assurdo da sfiorare il ridicolo. Un fallimento su tutta la linea. In definitiva, è un mediocre filmetto che si inserisce nel filone della vendetta, occupando però uno degli ultimi posti di un’ipotetica classifica sulle tante opere che trattano quel tema.

VOTO: 4/10

La solitudine dei Buendía

La copertina di "Cent'anni di solitudine"

La copertina di “Cent’anni di solitudine”

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Aperto da un incipit di rara e impareggiabile bellezza, destinato a stamparsi indelebilmente nella memoria del lettore, “Cent’anni di solitudine” è uno di quei libri che si portano appresso la fama di capolavoro. Quando si legge un libro famoso e incensato come questo, ci si aspettano grandi cose, ma a volte può capitare di rimanere delusi, perché non sempre le aspettative trovano riscontro nella lettura. Non è però il caso dell’opera in questione, perché “Cent’anni di solitudine” il titolo di capolavoro se lo merita tutto. Si inizia a leggerlo con grande curiosità, un po’ per piacere personale, un po’ per verificare se la popolarità che lo accompagna sia meritata, e si arriva alla fine completamente rapiti e avvinti dal fascino di questo splendido romanzo. Quattrocento pagine di superba letteratura in cui Gabriel García Márquez narra la saga della famiglia Buendía, partendo da José Arcadio Buendía e sua moglie, Ursula Iguarán, che un giorno decidono di lasciare il paese in cui vivono, Riohacha, per intraprendere un lungo e spossante viaggio, durante il quale lei mette al mondo un figlio, José Arcadio, al termine del quale giungono in un posto sperduto dove i due fondano un villaggio a cui danno il nome di Macondo. Lì Ursula darà alla luce altri due figli, Aureliano Buendía e Amaranta (colei che dirà a Fernanda: “Sto dicendo che sei di quelle che confondono il cazzo con l’equinozio”); i tre crescendo scopriranno il sesso e l’amore, ma i membri della stirpe dei Buendía, dopo averne passate e combinate di tutti i colori, si ritroveranno attanagliati dalla solitudine. Sì, perché i personaggi creati e delineati dalla sapiente penna dello scrittore colombiano amano, odiano, litigano, soffrono, fanno all’amore ma, alla fine di tutto, si ritrovano sempre soli con se stessi.

Gabriel García Márquez

Gabriel García Márquez

La solitudine è il filo rosso che lega i protagonisti di questo emozionante e appassionante racconto, perché tutti, dopo aver collezionato una serie di fallimenti e delusioni, sono costretti a fare i conti con essa. La grandezza di García Márquez sta nel fatto di riuscire a tratteggiare ogni singolo personaggio con un’ironia superiore e con uno sguardo distaccato e partecipe al contempo che gli consente di raccontare le traversie dei Buendía con una straordinaria lucidità d’analisi. Dei tanti personaggi che vivono dentro alle pagine di questo libro è difficile dire quale sia quello che rimane più impresso nella mente; forse José Arcadio Buendía, il patriarca fissato con le invenzioni che lentamente scivola nella follia; o forse il colonnello Aureliano Buendía, che si schiera dalla parte dei liberali per combattere i conservatori e che da vecchio si rintana nel laboratorio di oreficeria del padre per realizzare i pesciolini d’oro; o forse José Arcadio, che la natura ha dotato di un membro di notevoli dimensioni per la gioia delle donne con cui egli va a letto (una zingara, quando lo vede nudo, gli dice: “Ragazzo, che Dio te lo conservi”); o forse Ursula Iguarán, la matriarca che sopporta le stranezze del marito con una pazienza encomiabile e che si fa in quattro per la sua famiglia ma in cambio riceve solo amarezze. Ce ne sarebbero tanti altri da citare (come dimenticare, ad esempio, Rebeca, che ha il vizio di mangiare la terra, o Remedios la bella, che vive chiusa in casa?), così come ci sarebbero tante altre cose da dire a proposito di questo magnifico libro (che l’autore sudamericano ha steso in diciotto mesi), ma è meglio non svelare troppo la trama del romanzo. La cosa migliore da fare è quella di leggerlo e gustarselo dalla prima all’ultima riga sapendo poco o nulla della storia. Perciò chiudiamo limitandoci a dire che il finale è semplicemente grandioso.

VOTO: 10/10

Il suo nome è Summer, non Sole

La locandina di "(500) giorni insieme"

La locandina di “(500) giorni insieme”

Un giorno, forse, qualcuno si degnerà di spiegare, a noi poveri spettatori, per quale assurda ragione nel nostro disastrato Paese c’è la brutta consuetudine di modificare i nomi dei personaggi dei film stranieri. Tornando indietro nel tempo, non possiamo non citare il clamoroso caso di “Nick mano fredda” di Stuart Rosenberg, il cui protagonista, interpretato da uno splendido Paul Newman, nella versione originale si chiama Lucas, in quella italiana, invece, Nicholas. Per quale motivo, non è dato sapere. Stesso discorso per il mitico protagonista di “1997 – Fuga da New York” di John Carpenter, Snake, che il pubblico nostrano conosce con il nome di Jena. Passano gli anni ma le abitudini, si sa, sono dure a morire, e allora ecco che in Italia, il Paese dove tutto è possibile (anche che coloro che hanno fallito su tutta la linea abbiano ancora il coraggio di parlare e di proporsi come i risolutori dei problemi che loro stessi hanno creato; roba da far venire il vomito), la protagonista di “(500) giorni insieme” di Marc Webb, Summer, viene ribattezzata Sole. Anche questa volta, come in occasione dei sopracitati film di Rosenberg e Carpenter, la causa di tale cambiamento rimane oscura. Chi e perché ha deciso che Summer non andasse bene e che perciò si dovesse sostituirlo con un altro nome? E, soprattutto, dall’alto di che cosa ci si permette di intervenire così pesantemente nelle opere altrui? Sarebbe bello se qualcuno ci desse spiegazioni in merito, ma dubitiamo fortemente che ci sia una giustificazione plausibile a tale deprecabile pratica. E già che ci siamo, ne approfittiamo per dire che sarebbe anche ora di abolire il doppiaggio. Non se ne può più di sentire gli attori stranieri parlare con le voci quasi sempre inascoltabili dei doppiatori italiani (tipo quella di Pino Insegno; roba da turarsi le orecchie). E poi basta con le traduzioni approssimative dei dialoghi, che oltre ad essere piene di errori (non sono pochi i traduttori che ignorano l’esistenza del congiuntivo) spesso ne stravolgono il senso, finendo così per rovinare i film.

Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt

Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt

Detto questo, c’è da aggiungere che se anche nella versione italiana la protagonista si chiamasse Summer invece di Sole, “(500) giorni insieme” sarebbe lo stesso un film di una pochezza sconcertante. La storia, infatti, è di una semplicità imbarazzante: un ragazzo, Tom Hansen (Joseph Gordon-Levitt), incontra una ragazza, Summer Finn (Zooey Deschanel), di cui si innamora perdutamente. Stop. E’ tutto qui. Non c’è altro da dire. Il film si limita a raccontare la loro travagliata relazione sentimentale. Lui è convinto che esista l’amore assoluto, lei invece non ha nessuna intenzione di impegnarsi in un rapporto serio e duraturo. Difficile immaginare qualcosa di più banale e scontato. Perfino un bambino delle elementari avrebbe potuto concepire una storia (?) del genere. D’accordo, non sempre si può pretendere, specialmente da un film leggero come (avrebbe voluto essere) questo, che gli intrecci siano complessi e sfaccettati ma, caspita, gli sceneggiatori di questa stucchevole commediola romantica, Scott Neustadter e Michael H. Weber, hanno scritto una storiella talmente sciocca e infantile da risultare irritante. E poi, oltre ad essere elementare e puerile, la storia ci viene narrata in ordine non cronologico, senza che se ne capisca bene il motivo.

Joseph Gordon-Levitt e Zooey Deschanel

Joseph Gordon-Levitt e Zooey Deschanel

Forse Marc Webb crede di essere una specie di genio, ma dovrebbe svegliarsi dal mondo dei sogni, perché in realtà è soltanto un modesto mestierante che ha la fortuna di potersi sedere dietro la macchina da presa per realizzare schifezze come questa, mentre un gigante del calibro di Michael Cimino, che si è guadagnato un posto d’onore nella Storia del Cinema grazie a un paio di capolavori, “Il cacciatore” e “I cancelli del cielo”, è costretto ad essere inattivo. Non pago, il regista di questa ciofeca spacciata per film ha pensato bene di infilare nell’esile trama un inutile e assurdo numero musicale, su cui è meglio stendere un velo pietoso. La pellicola viene affossata definitivamente dalla pessima prova di Joseph Gordon-Levitt, che, incredibile ma vero, per l’intera durata del film ha sempre la stessa faccia. Fateci caso: che sia triste o allegro, arrabbiato o tranquillo, ubriaco o sobrio, non cambia mai espressione. Se al suo posto avessero ingaggiato un manichino, il risultato sarebbe stato uguale. Zooey Deschanel almeno è capace di recitare, ma la sua interpretazione è penalizzata da un personaggio antipatico (tra Summer e Tom è difficile dire chi sia più insopportabile) e scritto male. Di questo film prevedibile, ridicolo e grossolano si può salvare soltanto la colonna sonora, che contiene splendide canzoni degli Smiths (“There Is A Light That Never Goes Out” e “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want”), Pixies (“Here Comes Your Man”), Simon & Garfunkel (“Bookends”) e Feist (“Mushaboom”). Tutto il resto si può tranquillamente buttare nel bidone della spazzatura. Stupisce che una pellicola così scarsa e insulsa abbia degli estimatori.

VOTO: 3/10

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