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Il dio del massacro

La locandina di "Carnage"

La locandina di “Carnage”

New York. Un undicenne, Zachary, colpisce un suo coetaneo, Ethan, con un bastone all’altezza della bocca causandogli la rottura di due denti. I genitori del primo, Alan e Nancy Cowan (rispettivamente avvocato e operatrice finanziaria), e quelli del secondo, Michael e Penelope Longstreet (rappresentante lui, scrittrice lei), si incontrano per parlare di quanto accaduto tra i loro figli. All’inizio il confronto tra le due coppie è all’insegna della cordialità, ma la situazione ben presto degenera e durante la discussione i quattro se ne diranno di tutti i colori. “Carnage” fa tornare alla mente un vecchio e straordinario film di John Cassavetes, “Volti”, in cui i protagonisti, sempre chiusi dentro quattro mura, litigavano furiosamente e si scannavano a vicenda. Ad innescare il gioco al massacro nell’opera di Cassavetes era una crisi coniugale, in quella di Roman Polanski, invece, è un litigio tra due ragazzini che, inevitabilmente, finisce per coinvolgere i genitori dei litiganti, i quali, con il loro comportamento arrogante e infantile, si rivelano uno peggio dell’altro. Il bello di questo film, che Polanski ha tratto da un testo teatrale di Yasmina Reza, “Il dio del massacro”, sceneggiandolo insieme all’autrice francese, è che non c’è nessun personaggio che possa dire di essere immune dalle critiche. Non ci sono anime candide e innocenti, in questa storia, perché tutti, chi più chi meno, sono colpevoli di qualcosa. Sono colpevoli i genitori di Zachary, che non riescono ad educare il loro figlio per fargli capire che è sbagliato comportarsi in modo violento, ma sono colpevoli anche i genitori di Ethan, perché sono convinti di essere perfetti e come tali pensano di poter giudicare gli altri dall’alto della loro presunta superiorità morale, ma non si rendono conto che in realtà sono due individui meschini (soprattutto lui) che vivono mentendo sia a se stessi che agli altri, ai quali fanno credere di essere persone perbene per celare la loro bassezza e grettezza.

Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz e Kate Winslet

Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz e Kate Winslet

“Carnage” è un film piccolo per la durata (la storia viene raccontata in appena settantanove minuti) e l’ambientazione (la vicenda si svolge quasi tutta all’interno dell’abitazione dei Longstreet) ma grande per stile e contenuti, con Polanski che sfodera una prova registica all’altezza della sua fama e una cattiveria degna dei suoi giorni migliori. Il regista polacco chiude i suoi personaggi dentro a un appartamento, punta la macchina da presa contro di loro, li filma come se fossero degli animali in gabbia e, con occhio da entomologo, li analizza impietosamente svelandone l’inettitudine e condannandoli a vivere nella loro mediocrità. Affidandosi a dialoghi taglienti e affilati come una lama, Polanski realizza un film feroce e spietato come ai vecchi tempi. Oltre che una lezione di regia, la pellicola è anche una lezione di recitazione impartita da quattro interpreti in splendida forma che si calano nei loro ruoli alla perfezione. Le performance degli attori sono talmente convincenti da rendere arduo stabilire chi sia più bravo tra Jodie Foster (Penelope), John C. Reilly (Michael), Kate Winslet (Nancy) e Christoph Waltz (Alan); ma se proprio dovessimo consegnare la palma del migliore solo a uno di loro, la daremmo a Waltz, che nella parte dell’avvocato cinico e sprezzante sempre attaccato al cellulare riesce ad essere magnificamente sgradevole (la sua antipatia raggiunge vette inaudite quando definisce suo figlio “un pazzoide”). Memorabile la scena in cui la Winslet vomita sul tavolino.

VOTO: 8/10

Il suo nome è Summer, non Sole

La locandina di "(500) giorni insieme"

La locandina di “(500) giorni insieme”

Un giorno, forse, qualcuno si degnerà di spiegare, a noi poveri spettatori, per quale assurda ragione nel nostro disastrato Paese c’è la brutta consuetudine di modificare i nomi dei personaggi dei film stranieri. Tornando indietro nel tempo, non possiamo non citare il clamoroso caso di “Nick mano fredda” di Stuart Rosenberg, il cui protagonista, interpretato da uno splendido Paul Newman, nella versione originale si chiama Lucas, in quella italiana, invece, Nicholas. Per quale motivo, non è dato sapere. Stesso discorso per il mitico protagonista di “1997 – Fuga da New York” di John Carpenter, Snake, che il pubblico nostrano conosce con il nome di Jena. Passano gli anni ma le abitudini, si sa, sono dure a morire, e allora ecco che in Italia, il Paese dove tutto è possibile (anche che coloro che hanno fallito su tutta la linea abbiano ancora il coraggio di parlare e di proporsi come i risolutori dei problemi che loro stessi hanno creato; roba da far venire il vomito), la protagonista di “(500) giorni insieme” di Marc Webb, Summer, viene ribattezzata Sole. Anche questa volta, come in occasione dei sopracitati film di Rosenberg e Carpenter, la causa di tale cambiamento rimane oscura. Chi e perché ha deciso che Summer non andasse bene e che perciò si dovesse sostituirlo con un altro nome? E, soprattutto, dall’alto di che cosa ci si permette di intervenire così pesantemente nelle opere altrui? Sarebbe bello se qualcuno ci desse spiegazioni in merito, ma dubitiamo fortemente che ci sia una giustificazione plausibile a tale deprecabile pratica. E già che ci siamo, ne approfittiamo per dire che sarebbe anche ora di abolire il doppiaggio. Non se ne può più di sentire gli attori stranieri parlare con le voci quasi sempre inascoltabili dei doppiatori italiani (tipo quella di Pino Insegno; roba da turarsi le orecchie). E poi basta con le traduzioni approssimative dei dialoghi, che oltre ad essere piene di errori (non sono pochi i traduttori che ignorano l’esistenza del congiuntivo) spesso ne stravolgono il senso, finendo così per rovinare i film.

Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt

Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt

Detto questo, c’è da aggiungere che se anche nella versione italiana la protagonista si chiamasse Summer invece di Sole, “(500) giorni insieme” sarebbe lo stesso un film di una pochezza sconcertante. La storia, infatti, è di una semplicità imbarazzante: un ragazzo, Tom Hansen (Joseph Gordon-Levitt), incontra una ragazza, Summer Finn (Zooey Deschanel), di cui si innamora perdutamente. Stop. E’ tutto qui. Non c’è altro da dire. Il film si limita a raccontare la loro travagliata relazione sentimentale. Lui è convinto che esista l’amore assoluto, lei invece non ha nessuna intenzione di impegnarsi in un rapporto serio e duraturo. Difficile immaginare qualcosa di più banale e scontato. Perfino un bambino delle elementari avrebbe potuto concepire una storia (?) del genere. D’accordo, non sempre si può pretendere, specialmente da un film leggero come (avrebbe voluto essere) questo, che gli intrecci siano complessi e sfaccettati ma, caspita, gli sceneggiatori di questa stucchevole commediola romantica, Scott Neustadter e Michael H. Weber, hanno scritto una storiella talmente sciocca e infantile da risultare irritante. E poi, oltre ad essere elementare e puerile, la storia ci viene narrata in ordine non cronologico, senza che se ne capisca bene il motivo.

Joseph Gordon-Levitt e Zooey Deschanel

Joseph Gordon-Levitt e Zooey Deschanel

Forse Marc Webb crede di essere una specie di genio, ma dovrebbe svegliarsi dal mondo dei sogni, perché in realtà è soltanto un modesto mestierante che ha la fortuna di potersi sedere dietro la macchina da presa per realizzare schifezze come questa, mentre un gigante del calibro di Michael Cimino, che si è guadagnato un posto d’onore nella Storia del Cinema grazie a un paio di capolavori, “Il cacciatore” e “I cancelli del cielo”, è costretto ad essere inattivo. Non pago, il regista di questa ciofeca spacciata per film ha pensato bene di infilare nell’esile trama un inutile e assurdo numero musicale, su cui è meglio stendere un velo pietoso. La pellicola viene affossata definitivamente dalla pessima prova di Joseph Gordon-Levitt, che, incredibile ma vero, per l’intera durata del film ha sempre la stessa faccia. Fateci caso: che sia triste o allegro, arrabbiato o tranquillo, ubriaco o sobrio, non cambia mai espressione. Se al suo posto avessero ingaggiato un manichino, il risultato sarebbe stato uguale. Zooey Deschanel almeno è capace di recitare, ma la sua interpretazione è penalizzata da un personaggio antipatico (tra Summer e Tom è difficile dire chi sia più insopportabile) e scritto male. Di questo film prevedibile, ridicolo e grossolano si può salvare soltanto la colonna sonora, che contiene splendide canzoni degli Smiths (“There Is A Light That Never Goes Out” e “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want”), Pixies (“Here Comes Your Man”), Simon & Garfunkel (“Bookends”) e Feist (“Mushaboom”). Tutto il resto si può tranquillamente buttare nel bidone della spazzatura. Stupisce che una pellicola così scarsa e insulsa abbia degli estimatori.

VOTO: 3/10

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