La solitudine dei Buendía
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Aperto da un incipit di rara e impareggiabile bellezza, destinato a stamparsi indelebilmente nella memoria del lettore, “Cent’anni di solitudine” è uno di quei libri che si portano appresso la fama di capolavoro. Quando si legge un libro famoso e incensato come questo, ci si aspettano grandi cose, ma a volte può capitare di rimanere delusi, perché non sempre le aspettative trovano riscontro nella lettura. Non è però il caso dell’opera in questione, perché “Cent’anni di solitudine” il titolo di capolavoro se lo merita tutto. Si inizia a leggerlo con grande curiosità, un po’ per piacere personale, un po’ per verificare se la popolarità che lo accompagna sia meritata, e si arriva alla fine completamente rapiti e avvinti dal fascino di questo splendido romanzo. Quattrocento pagine di superba letteratura in cui Gabriel García Márquez narra la saga della famiglia Buendía, partendo da José Arcadio Buendía e sua moglie, Ursula Iguarán, che un giorno decidono di lasciare il paese in cui vivono, Riohacha, per intraprendere un lungo e spossante viaggio, durante il quale lei mette al mondo un figlio, José Arcadio, al termine del quale giungono in un posto sperduto dove i due fondano un villaggio a cui danno il nome di Macondo. Lì Ursula darà alla luce altri due figli, Aureliano Buendía e Amaranta (colei che dirà a Fernanda: “Sto dicendo che sei di quelle che confondono il cazzo con l’equinozio”); i tre crescendo scopriranno il sesso e l’amore, ma i membri della stirpe dei Buendía, dopo averne passate e combinate di tutti i colori, si ritroveranno attanagliati dalla solitudine. Sì, perché i personaggi creati e delineati dalla sapiente penna dello scrittore colombiano amano, odiano, litigano, soffrono, fanno all’amore ma, alla fine di tutto, si ritrovano sempre soli con se stessi.
La solitudine è il filo rosso che lega i protagonisti di questo emozionante e appassionante racconto, perché tutti, dopo aver collezionato una serie di fallimenti e delusioni, sono costretti a fare i conti con essa. La grandezza di García Márquez sta nel fatto di riuscire a tratteggiare ogni singolo personaggio con un’ironia superiore e con uno sguardo distaccato e partecipe al contempo che gli consente di raccontare le traversie dei Buendía con una straordinaria lucidità d’analisi. Dei tanti personaggi che vivono dentro alle pagine di questo libro è difficile dire quale sia quello che rimane più impresso nella mente; forse José Arcadio Buendía, il patriarca fissato con le invenzioni che lentamente scivola nella follia; o forse il colonnello Aureliano Buendía, che si schiera dalla parte dei liberali per combattere i conservatori e che da vecchio si rintana nel laboratorio di oreficeria del padre per realizzare i pesciolini d’oro; o forse José Arcadio, che la natura ha dotato di un membro di notevoli dimensioni per la gioia delle donne con cui egli va a letto (una zingara, quando lo vede nudo, gli dice: “Ragazzo, che Dio te lo conservi”); o forse Ursula Iguarán, la matriarca che sopporta le stranezze del marito con una pazienza encomiabile e che si fa in quattro per la sua famiglia ma in cambio riceve solo amarezze. Ce ne sarebbero tanti altri da citare (come dimenticare, ad esempio, Rebeca, che ha il vizio di mangiare la terra, o Remedios la bella, che vive chiusa in casa?), così come ci sarebbero tante altre cose da dire a proposito di questo magnifico libro (che l’autore sudamericano ha steso in diciotto mesi), ma è meglio non svelare troppo la trama del romanzo. La cosa migliore da fare è quella di leggerlo e gustarselo dalla prima all’ultima riga sapendo poco o nulla della storia. Perciò chiudiamo limitandoci a dire che il finale è semplicemente grandioso.
VOTO: 10/10