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Il buio nella mente

La locandina di "Repulsion"

La locandina di “Repulsion”

Dalla barca de “Il coltello nell’acqua” (1962) fino al teatro di “Venere in pelliccia” (2013), passando per l’abitazione di “Repulsion” (1965), il castello di “Cul-de-sac” (1966), il maniero di “Per favore non mordermi sul collo” (1967), lo stabile di “Rosemary’s Baby” (1968), il palazzo di “L’inquilino del terzo piano” (1976), la nave da crociera di “Luna di fiele” (1992), il cottage di “La morte e la fanciulla” (1994) e l’appartamento di “Carnage” (2011), Roman Polanski, classe 1933, nel corso della sua lunga e gloriosa carriera ha ampiamente dimostrato di essere perfettamente a suo agio nei set claustrofobici. E conoscendo questa sua predilezione per gli spazi chiusi, aumenta il rammarico per il fatto che egli non abbia mai ricavato una trasposizione cinematografica da “La metamorfosi” di Franz Kafka. Pensate un po’ a che film poteva uscire dal geniale testo dell’autore praghese, soprattutto se Polanski lo avesse realizzato nel suo periodo di forma migliore, ossia negli anni Sessanta e Settanta. Probabilmente ne sarebbe venuto fuori un capolavoro, o giù di lì. “Repulsion” è il secondo lungometraggio del regista polacco (il primo era “Il coltello nell’acqua”, uno degli esordi più fulminanti di tutti i tempi), e racconta l’inquietante storia di una giovane e affascinante estetista belga, Carol Ledoux (Catherine Deneuve), che soffre di dissociazione mentale e che risiede a Londra in un appartamento in affitto insieme alla sorella maggiore, Helen (Yvonne Furneaux), la quale ha una relazione sentimentale con un uomo sposato, Michael (Ian Hendry). Quando questi ultimi due decidono di andare in vacanza in Italia per una decina di giorni, Carol rimane a casa da sola, e la solitudine acuisce la sua schizofrenia a tal punto da farla sprofondare nella follia più totale. Fin dal folgorante incipit, in cui la cinepresa inquadra in primo piano l’occhio della Deneuve su cui compaiono i titoli di testa, con la scritta “Directed by Roman Polanski” che simula il taglio del bulbo oculare dell’attrice francese (un evidente omaggio alla celeberrima sequenza di apertura di “Un chien andalou”, 1929) con un movimento orizzontale da destra verso sinistra, capiamo due cose: la prima è che ci troviamo di fronte a un film superbo; la seconda è che Carol, quando l’inquadratura si allarga e vediamo il suo viso per intero, ha qualcosa che non va.

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Quel suo sguardo perso nel vuoto, infatti, non fa presagire nulla di buono, e nel giro di circa cento minuti avremo la conferma che avevamo ragione a sospettare che dietro agli occhi spenti della ragazza si celasse qualcosa di preoccupante. In trasferta in Inghilterra, Polanski (che oltre a sceneggiare a quattro mani con Gérard Brach appare brevemente nelle vesti di un suonatore di cucchiai) tratteggia un ritratto scioccante di una donna schizofrenica che odia gli uomini fino alla repulsione (da qui il titolo del film), e grazie alla straordinaria mobilità della macchina da presa, che si muove sempre sicura, dimostra come si possa fare cinema di altissimo livello all’interno di un appartamento, e quando si sofferma sul volto catatonico di Carol, è come se ci invitasse a penetrare negli oscuri meandri della mente malata della protagonista, la quale soffre di terribili allucinazioni (si immagina che le crepe squarcino i muri della sua casa e che dalle pareti escano delle braccia umane) e improvvisi attacchi di catalessi (come quando, nel memorabile inizio, fissa un punto indefinito davanti a sé tenendo nella sua mano quella di una cliente del centro estetico per cui lavora). La fotografia in bianco e nero di Gilbert Taylor crea un’atmosfera minacciosa, ben sottolineata dalle musiche di Chico Hamilton, e Catherine Deneuve, che interpreta con notevole intensità un ruolo complesso e sfaccettato, non è mai (più) stata così brava e convincente, nemmeno quando ha lavorato con quel genio di Luis Buñuel in “Bella di giorno” (1967) e in “Tristana” (1970).

Catherine Deneuve

Catherine Deneuve

Sospeso tra realtà e immaginazione, attraversato da una tensione costante e pervaso da una profonda inquietudine, “Repulsion” (vincitore, nel 1965, dell’Orso d’argento al Festival di Berlino) è un film macabro e disturbante, ricco di momenti agghiaccianti (ne citiamo uno per tutti: l’omicidio compiuto a colpi di rasoio), che oscilla magistralmente tra il thriller e l’horror e che, mediante un crescendo drammatico esemplare, avviluppa lo spettatore in un vortice senza via d’uscita. Le scene indimenticabili sono tante, elencarle tutte sarebbe noioso, perciò ci limitiamo a ricordare quella in cui Carol parla con una sua collega che le dice di essersi divertita un mondo a vedere al cinema un film diretto e interpretato da Charlie Chaplin in cui quest’ultimo aveva talmente tanta fame da mangiare una scarpa, e in cui c’era un omone grande e grosso, anch’egli terribilmente affamato, che scambiava Charlot per una gallina (nella scena in questione il titolo del film di Chaplin non viene menzionato, ma è superfluo dire che si tratta di “La febbre dell’oro”, 1925). E’ probabile che Robert Altman si sia ispirato a questo magnifico film di Polanski quando, nel 1972, ha girato “Images”, un eccellente thriller psicologico con venature fantasy e horror che narra una vicenda per certi versi analoga a quella di “Repulsion”, così come è probabile che lo Stephen King di “Shining”, nel 1977, abbia preso dal suddetto film di Altman l’idea di ambientare in un luogo isolato (nel caso del romanziere un hotel, in quello del cineasta una casa di campagna) una storia che racconta di una graduale discesa nella paranoia. E per chiudere il cerchio delle somiglianze, la prodigiosa pellicola che Stanley Kubrick, nel 1980, ha tratto dal romanzo dello scrittore di Portland si conclude con una scena molto simile a quella con cui termina “Repulsion”. Com’è che diceva Pablo Picasso? “I mediocri imitano, i geni copiano”.

VOTO: 9/10

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