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Solo chi cade può risorgere

La copertina di "Opinioni di un clown"

La copertina di “Opinioni di un clown”

Hans Schnier ha ventisette anni e si guadagna da vivere facendo il clown, ma nonostante sia ancora giovane, la sua carriera ha già imboccato il viale del tramonto. Come pagliaccio, infatti, non lo vuole quasi più nessuno, e il suo agente, Zohnerer, gli consiglia di prendersi un lungo periodo di riposo per rimettersi in forma, anche perché durante la sua ultima esibizione Hans si è fatto male al ginocchio, quindi, prima di tornare a lavorare, deve pensare a guarire dall’infortunio. L’inattività, però, gli crea un grave problema economico: non lavorando, infatti, non ha uno stipendio, e se non trova qualcuno che gli presti un po’ di denaro, Hans rischia di morire di fame. Come se non bastasse, c’è dell’altro: Hans è terribilmente depresso non solo perché la sua carriera sta andando a rotoli, ma anche e soprattutto perché è stato abbandonato dalla sua compagna, Maria Derkum, che lui ama alla follia, la quale lo ha lasciato per sposarsi con un altro, Herbert Züpfner, che lui odia con tutte le sue forze. Completamente al verde, afflitto da un perenne mal di testa e senza più l’amore della sua vita, Hans torna a Bonn, si chiude nel suo appartamento e, con il morale sotto i tacchi, inizia un giro di telefonate nella speranza di trovare almeno una persona disposta a dargli dei soldi. C’è tanta tristezza, in “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll. La felicità sembra non esistere, e di gente come Hans il mondo non sa cosa farsene. Perfino i suoi genitori, che sono ricchi e benestanti, gli hanno voltato le spalle, specialmente sua madre, che lo ha sempre trattato con freddezza, mentre suo padre, in uno dei passaggi più struggenti del libro, tenta di aiutarlo, ma inutilmente. Ad Hans non rimane altro che la sua disperazione. Una soluzione per uscire dalla sua penosa condizione, forse, potrebbe essere quella del suicidio, ma togliersi la vita sarebbe fin troppo facile, e poi, se si uccidesse, finirebbe per fare un favore a coloro che gli vogliono male. Non gli rimane altro, quindi, che rimboccarsi le maniche e tentare di risalire dal pozzo senza fine in cui è sprofondato percorrendo un gradino alla volta, passo dopo passo, con estrema pazienza, finché non riuscirà a vedere la luce dell’uscita e a riconquistare la speranza di poter vivere un’esistenza migliore. Impregnato da una profonda malinconia, attraversato da un umorismo acido e corrosivo e scritto con uno stile rapido e conciso, “Opinioni di un clown” è un libro che stringe il cuore del lettore fino a spezzarlo in mille pezzi.

VOTO: 10/10

Il dio del massacro

La locandina di "Carnage"

La locandina di “Carnage”

New York. Un undicenne, Zachary, colpisce un suo coetaneo, Ethan, con un bastone all’altezza della bocca causandogli la rottura di due denti. I genitori del primo, Alan e Nancy Cowan (rispettivamente avvocato e operatrice finanziaria), e quelli del secondo, Michael e Penelope Longstreet (rappresentante lui, scrittrice lei), si incontrano per parlare di quanto accaduto tra i loro figli. All’inizio il confronto tra le due coppie è all’insegna della cordialità, ma la situazione ben presto degenera e durante la discussione i quattro se ne diranno di tutti i colori. “Carnage” fa tornare alla mente un vecchio e straordinario film di John Cassavetes, “Volti”, in cui i protagonisti, sempre chiusi dentro quattro mura, litigavano furiosamente e si scannavano a vicenda. Ad innescare il gioco al massacro nell’opera di Cassavetes era una crisi coniugale, in quella di Roman Polanski, invece, è un litigio tra due ragazzini che, inevitabilmente, finisce per coinvolgere i genitori dei litiganti, i quali, con il loro comportamento arrogante e infantile, si rivelano uno peggio dell’altro. Il bello di questo film, che Polanski ha tratto da un testo teatrale di Yasmina Reza, “Il dio del massacro”, sceneggiandolo insieme all’autrice francese, è che non c’è nessun personaggio che possa dire di essere immune dalle critiche. Non ci sono anime candide e innocenti, in questa storia, perché tutti, chi più chi meno, sono colpevoli di qualcosa. Sono colpevoli i genitori di Zachary, che non riescono ad educare il loro figlio per fargli capire che è sbagliato comportarsi in modo violento, ma sono colpevoli anche i genitori di Ethan, perché sono convinti di essere perfetti e come tali pensano di poter giudicare gli altri dall’alto della loro presunta superiorità morale, ma non si rendono conto che in realtà sono due individui meschini (soprattutto lui) che vivono mentendo sia a se stessi che agli altri, ai quali fanno credere di essere persone perbene per celare la loro bassezza e grettezza.

Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz e Kate Winslet

Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz e Kate Winslet

“Carnage” è un film piccolo per la durata (la storia viene raccontata in appena settantanove minuti) e l’ambientazione (la vicenda si svolge quasi tutta all’interno dell’abitazione dei Longstreet) ma grande per stile e contenuti, con Polanski che sfodera una prova registica all’altezza della sua fama e una cattiveria degna dei suoi giorni migliori. Il regista polacco chiude i suoi personaggi dentro a un appartamento, punta la macchina da presa contro di loro, li filma come se fossero degli animali in gabbia e, con occhio da entomologo, li analizza impietosamente svelandone l’inettitudine e condannandoli a vivere nella loro mediocrità. Affidandosi a dialoghi taglienti e affilati come una lama, Polanski realizza un film feroce e spietato come ai vecchi tempi. Oltre che una lezione di regia, la pellicola è anche una lezione di recitazione impartita da quattro interpreti in splendida forma che si calano nei loro ruoli alla perfezione. Le performance degli attori sono talmente convincenti da rendere arduo stabilire chi sia più bravo tra Jodie Foster (Penelope), John C. Reilly (Michael), Kate Winslet (Nancy) e Christoph Waltz (Alan); ma se proprio dovessimo consegnare la palma del migliore solo a uno di loro, la daremmo a Waltz, che nella parte dell’avvocato cinico e sprezzante sempre attaccato al cellulare riesce ad essere magnificamente sgradevole (la sua antipatia raggiunge vette inaudite quando definisce suo figlio “un pazzoide”). Memorabile la scena in cui la Winslet vomita sul tavolino.

VOTO: 8/10

Un fantasy irritante e inconcludente

La locandina di "Tideland"

La locandina di “Tideland”

Invece di prendersi cura della loro figlia, l’undicenne Jeliza-Rose, mamma e papà si sparano le pere dalla mattina alla sera. Nonostante se ne freghino di lei, Jeliza-Rose vuole bene ai suoi genitori, tanto da preparare loro le siringhe con cui si bucano le vene per intraprendere i viaggioni sotto l’effetto dell’eroina. A furia di bucarsi, però, prima la mammina e poi il papino ci lasciano le penne, e la ragazzina si ritrova sola soletta, ma non per molto, dato che dopo essersi stabilita nella casetta della nonnina, Jeliza-Rose finisce per incontrare una svitata che va in giro vestita da strega, Dell, e il di lei fratello, Dickens, che, a modo loro, l’aiutano a superare la solitudine. Dispiace dirlo, perché Terry Gilliam è un regista dotato di una fervida fantasia che in passato ha dato ottima prova di sé, ma “Tideland” è un film veramente brutto e indifendibile. Questa volta la mente visionaria dell’ex Monty Python ha generato una pellicola (tratta dall’omonimo libro di Mitch Cullin) senza capo né coda che, tra scoiattoli che parlano e scontate citazioni da “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, si trascina stancamente per due ore facendo sprofondare lo spettatore nella noia più assoluta. Gli sbadigli si sprecano, mentre si guarda questo film soporifero, e sovente si consulta l’orologio per sapere quanto manca alla fine, che pare non arrivare mai, e che quando finalmente giunge delude assai, di questo fantasy irritante e inconcludente che non va da nessuna parte e che sembra scritto e diretto con la mano sinistra. Gilliam, che oltre a incaricarsi della regia sceneggia a quattro mani con Tony Grisoni, scade spesso nel ridicolo, condannando così il film al fallimento. “Tideland” è un clamoroso pastrocchio che, tra mille difetti, ha l’unico pregio di essere ben fotografato da Nicola Pecorini, a cui tocca il compito di illuminare gli ambienti in cui si svolge la tediosa vicenda. Il vero Gilliam non è questo, ma quello di “Brazil”, “La leggenda del Re Pescatore” e “Le avventure del Barone di Münchausen”, film splendidi da cui “Tideland” è distante anni luce. Non si capisce come un attore del calibro di Jeff Bridges (che interpreta il padre di Jeliza-Rose, Noah) abbia potuto farsi coinvolgere in un simile pasticcio; forse sono stati i soldi a convincerlo, o, molto più probabilmente, la fama di genio che accompagna Gilliam, ma resta il fatto che vederlo recitare nella parte di un musicista rock che si diverte a scoreggiare come un dannato fa venire una grande tristezza.

VOTO: 4/10

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