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Il buono e il cattivo

La locandina di "Quel treno per Yuma"

La locandina di “Quel treno per Yuma”

Forse sarebbe ora di rivalutare Delmer Daves. Non che fosse un genio che ha rivoluzionato il cinema alla maniera di un Orson Welles o di un Alfred Hitchcock (per citare due maestri che hanno lasciato un segno indelebile nella Settima Arte ispirando le future generazioni di cineasti di ogni parte del mondo), ma la qualifica di artigiano attribuitagli da alcuni, oltre a stargli decisamente stretta, non rende giustizia alla sua bravura. Può essere considerato un artigiano uno che ha realizzato “La fuga” (1947), un folgorante noir girato in gran parte in soggettiva? Può essere considerato un artigiano uno che ha fatto “L’albero degli impiccati” (1959) e “Quel treno per Yuma” (1957), due eccellenti western che non sfigurano affatto se confrontati con quelli di John Ford, Howard Hawks e Anthony Mann? E non dimentichiamoci di altri lavori meritevoli di attenzione come “L’ultima carovana” (1956) e “La casa rossa” (1947), ingiustamente caduti nel dimenticatoio, che andrebbero recuperati e apprezzati per il loro alto valore. “Quel treno per Yuma”, nel corso dei decenni, è giustamente diventato un classico del western, ma non tutti sono concordi nel ritenere che il film meriti tale titolo. Per alcuni, infatti, è sopravvalutato. Secondo costoro, “3:10 to Yuma” (così recita il titolo originale della pellicola, che nel 2007 ha avuto un remake non indispensabile diretto da James Mangold e interpretato nei ruoli principali da Russell Crowe e Christian Bale) è bello, ma non abbastanza da rientrare nell’elenco dei grandi western americani che hanno fatto la Storia del Cinema. E sia. Ognuno, d’altronde, ha le sue opinioni. In questo film, ricavato dall’omonimo racconto di Elmore Leonard e sceneggiato da Halsted Welles, invece che puntare sull’azione, che pure non manca (specie nel finale), Daves preferisce concentrarsi sulle psicologie dei personaggi, in particolare su quelle dei due protagonisti, il cattivo Ben Wade (Glenn Ford) e il buono Dan Evans (Van Heflin), per realizzare un western psicologico in cui le parole contano di più delle armi da fuoco.

Felicia Farr e Glenn Ford

Felicia Farr e Glenn Ford

Il primo è un criminale giramondo, il secondo un padre di famiglia che manda avanti un ranch tra mille difficoltà. Il destino fa incrociare le loro strade quando Ben, insieme alla sua banda di malviventi, deruba una diligenza uccidendo il conducente. Dan, in compagnia dei suoi due figli, ha visto tutto ma, temendo per la sua vita e per quella dei suoi bambini, ha preferito non intervenire. Ben ha intenzione di scappare in Messico, ma ritarda la fuga per spassarsela con un’affascinante barista che soffre di solitudine, Emmy (Felicia Farr). Mal gliene incoglie, perché mentre i suoi compagni si dirigono verso il confine messicano, lui viene arrestato dallo sceriffo con la fattiva collaborazione di Dan, che per mettersi in tasca duecento bigliettoni, che gli servono per pagare i suoi debiti, si prende pure la responsabilità di scortare il prigioniero fino al carcere di Yuma, che i due uomini devono raggiungere in treno. La parte migliore del film è la seconda, quella in cui Dan deve sorvegliare Ben in attesa che arrivi il convoglio che li porterà a destinazione, con il povero contadino che inoltre è costretto ad affrontare gli uomini del suo prigioniero, che sono disposti a fare qualunque cosa pur di liberare il loro capo, contando solo sulle sue forze. L’attesa per un treno che sembra non arrivare mai è resa magnificamente dalla regia di Daves, che sul piano narrativo crea una tensione crescente che culmina in un finale spettacolare, mentre su quello stilistico costruisce inquadrature precise e dettagliate sfruttando al meglio lo spazio in cui si svolge l’azione.

Van Heflin e Glenn Ford

Van Heflin e Glenn Ford

Durante il lungo dialogo tra Dan e Ben, lo spettatore è portato a chiedersi se il primo sia così onesto da fare il suo dovere fino in fondo, o se invece si lascerà irretire dalle chiacchiere del secondo, che tenta di convincere il suo guardiano a liberarlo dietro il pagamento di una somma di denaro. I quattrini hanno il potere di persuadere un individuo probo a lasciar andare un bandito, che si è macchiato di omicidio, mettendo così in pericolo le vite di persone innocenti? I soldi possono spingere un uomo perbene come Dan a far scappare un delinquente come Ben? Il buono e il cattivo, il bene e il male, la rettitudine e la disonestà: Daves, da consumato regista ed esperto narratore, non concede nulla al manicheismo, tratteggia con minuziosa abilità i caratteri dei personaggi, in modo da evitare di cadere nella trappola dello schematismo, e il risultato che ne consegue è un western di pregevole fattura che gode di una meritata fama tra gli appassionati del genere. Oltre che sull’attenta e solida regia di Daves, che nelle scene all’aperto filma i paesaggi con movimenti di macchina di ampio respiro, la pellicola può contare sulle ottime interpretazioni di Glenn Ford e Van Heflin, che danno vita a un bel duello recitativo che li vede entrambi vincitori, e sulla splendida fotografia in bianco e nero di Charles Lawton Jr., che conferisce al film un fascino senza tempo. La memorabile canzone che accompagna i titoli di testa, “3:10 to Yuma” di Ned Washington e George Duning, è cantata da Frankie Laine. Checché ne dicano alcuni, la Storia del Cinema Western passa anche da queste parti.

VOTO: 8/10

Virgil ed Everett

La locandina di "Appaloosa"

La locandina di “Appaloosa”

Il western è come il rock and roll: non morirà mai. In America negli anni Quaranta e Cinquanta era il genere che andava per la maggiore, grazie a registi come John Ford (“Sfida infernale”, 1946), Howard Hawks (“Il fiume rosso”, 1949), Delmer Daves (“Quel treno per Yuma”, 1957), Budd Boetticher (“L’albero della vendetta”, 1959), Anthony Mann (“L’uomo di Laramie”, 1955), Robert Aldrich (“Vera Cruz”, 1954) e Samuel Fuller (“La tortura della freccia”, 1957), che ci hanno regalato gemme che ancora oggi risplendono di luce propria, e anche negli anni Sessanta e Settanta il western ha continuato a furoreggiare, per merito di autori del calibro di Arthur Penn (“Piccolo grande uomo”, 1970), Sam Peckinpah (“Il mucchio selvaggio”, 1969), Robert Altman (“McCabe and Mrs. Miller”, 1971), Sydney Pollack (“Jeremiah Johnson”, 1972) e Sergio Leone (“C’era una volta il West”, 1968), che hanno contribuito a tenere in vita il genere con opere di grande rilievo artistico, mentre negli anni Ottanta la produzione di western ha conosciuto un vistoso calo, nonostante il decennio in questione si fosse aperto con l’eccellente “I cavalieri dalla lunghe ombre” (1980) di Walter Hill e l’immenso “I cancelli del cielo” (1980) di Michael Cimino, tanto da rischiare di sparire (ricordiamo soltanto i bei “Silverado” di Lawrence Kasdan e “Il cavaliere pallido” di Clint Eastwood, entrambi del 1985); ma proprio quando il western sembrava destinato ad estinguersi, nel 1990 è arrivato l’epico “Balla coi lupi” di Kevin Costner, che con il suo straordinario successo, sia di pubblico che di critica, ha ridato nuova linfa al genere in un periodo di vacche magre. E se non tutti i western girati negli ultimi cinque lustri sono memorabili (“Tombstone”, 1993, di George Pan Cosmatos e “Wyatt Earp”, 1994, di Lawrence Kasdan, ad esempio, sono tutt’altro che indispensabili), tra i migliori esempi del filone va annoverato il più che buono “Appaloosa” (2008) di Ed Harris, qui per la seconda volta dietro la macchina da presa (la prima era stata per il biografico “Pollock”, 2000). Oltre che dietro, il bravo Harris si mette anche davanti alla cinepresa per interpretare il ruolo di un abile pistolero, Virgil Cole, a cui, nel 1882, viene offerto di ricoprire la carica di sceriffo di Appaloosa, una cittadina situata nel New Mexico. Accanto a lui c’è il suo amico e vice sceriffo, Everett Hitch (Viggo Mortensen), anch’egli ottimo tiratore. Il loro compito è quello di arrestare un arrogante e viscido allevatore che si fa beffe della legge, Randall Bragg (Jeremy Irons), responsabile dell’omicidio del predecessore di Virgil. Mentre svolge il suo lavoro, il neo sceriffo trova anche il tempo per innamorarsi di una giovane e disinibita donna, Allison French (Renée Zellweger).

Viggo Mortensen ed Ed Harris

Viggo Mortensen ed Ed Harris

Forse non passerà alla storia del western, “Appaloosa”, e tra una cinquantina d’anni non verrà ricordato al pari dei classici realizzati dai maestri sopra citati, ma fa sempre piacere sapere che in giro ci sono ancora attori e registi che credono in un genere così poco frequentato, e che pur di tenerlo in vita hanno il coraggio di rischiare di andare contro ai gusti delle masse, anche a costo di fallire al botteghino. In questo film dal respiro classicheggiante ci sono dei buoni per cui tifare e un cattivo da detestare, ma la sceneggiatura (tratta dall’omonimo romanzo di Robert B. Parker, adattato dallo stesso Harris e da Robert Knott) non scade mai nel manicheismo e Harris, come regista, dimostra senza presunzione ma con molta umiltà di aver imparato bene la lezione impartita dagli autori che hanno fatto grande il genere. “Appaloosa” racconta di una bella amicizia, quella tra Virgil ed Everett, e di uomini che, per fare il proprio lavoro fino in fondo, sono disposti a sacrificare la loro esistenza. Il film ha un passo lento ma sicuro; il regista, saggiamente, non cerca inutili virtuosismi prediligendo, al contrario, uno stile semplice e classico che dona all’opera un’aria d’altri tempi. Il cast, poi, è notevole, con Ed Harris e Viggo Mortensen che formano una coppia affiata e collaudata (i due avevano già recitato insieme in “A History of Violence”, 2005, di David Cronenberg) e Jeremy Irons che interpreta con consumato mestiere la parte del cattivo di turno. L’unica nota stonata è rappresentata da Renée Zellweger, un’attrice mediocre e insopportabile la cui presenza, per fortuna, non inficia il valore della pellicola. Per gli appassionati di western, “Appaloosa” è un film da non lasciarsi sfuggire. Se siete amanti del genere, prendete il cappello da cowboy, allacciate il cinturone, infilate la pistola nella fondina, sellate il cavallo e montateci sopra: è ancora tempo di cavalcare liberi e selvaggi per le sconfinate praterie del Vecchio West. 

VOTO: 8/10

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