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Gran Torino, gran Eastwood, gran film

La locandina di "Gran Torino"

La locandina di “Gran Torino”

Con il passare degli anni il cinema di Clint Eastwood è diventato sempre più malinconico e funereo. Basti pensare a “Honkytonk Man” (1982), incentrato sulla figura di un cantante country minato dalla tubercolosi, a “Bird” (1988), biografia del jazzista maledetto e autodistruttivo Charlie Parker, a “Gli spietati” (1992), western che segna il tramonto del selvaggio West, a “Un mondo perfetto” (1993), che mette in scena la fine delle illusioni dell’America kennediana, a “I ponti di Madison County” (1995), struggente “breve incontro” tra un fotografo e una casalinga sposata, a “Mystic River” (2003), lugubre storia di un’amicizia rovinata da un fatto tragico, a “Million Dollar Baby” (2004), amaro racconto di un sogno spezzato, a “Changeling” (2008), dolente vicenda di una madre che non si rassegna alla scomparsa del figlio, a “Hereafter” (2010), coraggiosa riflessione sulla morte, e a “Gran Torino” (2008), che può essere considerato a tutti gli effetti il testamento spirituale e artistico di Eastwood. Alla soglia degli ottant’anni (che nel frattempo ha superato con slancio), il vecchio Clint, classe 1930, affronta il tema della vecchiaia e della morte, e lo fa a modo suo, naturalmente, mettendo al centro del film un personaggio ombroso e irascibile, Walt Kowalski (impersonato dallo stesso Eastwood, incarognito come non mai), che fa tornare alla mente un altro personaggio dal carattere impossibile entrato nella leggenda del cinema mondiale: Ethan Edwards, l’indimenticabile protagonista del mitico “Sentieri selvaggi” (1956) di John Ford. Se Ethan, invece di spostarsi continuamente da un posto all’altro, avesse messo radici da qualche parte e si fosse fatto una famiglia, invecchiando sarebbe diventato come Walt, che passa gli ultimi anni che gli rimangono da vivere parlando con se stesso e bevendo una birra dietro l’altra seduto sotto il portico per fare la guardia al suo giardino. “Che diavolo succede qui? In piedi. Fuori dal mio terreno” ringhia Walt a denti stretti, con il fucile spianato, a dei teppistelli che invadono il suo territorio. Nonostante abbia un’arma puntata contro, uno dei bulli da quattro soldi che finiscono nel giardino di Walt ha il coraggio di rispondergli: “Senti, nonno, non ti conviene farmi incazzare”. Walt, arrabbiato all’ennesima potenza, insiste: “Avete capito? Ho detto fuori dal mio terreno”. Il bulletto però non accenna ad abbassare la cresta: “Sei rincoglionito? Vattene in casa!”. “Sì, prima ti faccio un buco in faccia e poi rientro in casa e dormo come un pupo. Puoi starne certo. Con le caccole come te ci facevamo i muretti in Corea, i sacchetti di sabbia” continua a ringhiare Walt, sempre più furioso. “Ok. Ma guardati le spalle” gli dice il coglioncello prima di andarsene.

Clint Eastwood

Clint Eastwood

Oltre ad avere un carattere intrattabile (ma sia l’uno che l’altro sono capaci di improvvisi slanci di affetto; sotto la loro corazza di duri, Walt ed Ethan hanno un cuore che batte), i due hanno altre cose in comune: entrambi, infatti, provano odio per qualcuno (Walt per gli immigrati, Ethan per gli indiani), hanno combattuto una guerra (Walt quella di Corea, Ethan quella di Secessione) e, a un certo punto, si ritrovano a dover sopportare la compagnia di una persona a loro sgradita (Walt quella di un ragazzo di etnia Hmong, Thao Vang Lor; Ethan quella di un mezzosangue, Martin Pawley), quando invece preferirebbero starsene per i fatti propri. E se ci mettiamo che Walt, un ex soldato ed ex operaio della Ford in pensione che dopo essere rimasto vedovo vive da solo insieme al suo cane, Daisy, se ne va in giro con una pistola come se fosse un cowboy del Far West (ma invece di un cavallo possiede una Gran Torino del 1972 che adora e che custodisce come una reliquia nel garage di casa sua), le somiglianze che legano i due personaggi sono quantomeno curiose, anche se è molto probabile che si tratti di semplici coincidenze e che quanto scritto in precedenza sia il frutto della mente delirante di un umile cinefilo che ha l’abitudine di vedere troppi film. C’è però un’altra cosa che non bisogna sottovalutare: non sono solo Walt ed Ethan ad avere qualcosa da spartire, ma anche i film di cui sono protagonisti. “Sentieri selvaggi” inizia con una porta che si apre e finisce con una porta che si chiude; “Gran Torino” comincia con un funerale e termina con un altro funerale. Certo, chi avesse visto entrambi i film sa benissimo che Walt ed Ethan vanno incontro a un destino diametralmente opposto, ma sta di fatto che “Gran Torino” utilizza una struttura narrativa circolare di stampo fordiano.

Clint Eastwood

Clint Eastwood

Non dimentichiamoci, poi, che “Il cavaliere pallido” (1985) era un remake non dichiarato de “Il cavaliere della valle solitaria” (1953) di George Stevens; quindi, forse, non è esagerato pensare che il grande Clint, per questo film, abbia preso ispirazione da “Sentieri selvaggi”. D’altronde lui è uno dei pochi registi americani, insieme a Kevin Costner (che però dovrebbe mettersi più spesso dietro la macchina da presa, considerato quanto sono belli “Balla coi lupi”, 1990, “The Postman”, 1997, e “Open Range”, 2003), che porta avanti un’idea di cinema classico che ha avuto nell’autore di “Ombre rosse” (1939) il suo maggior esponente, perciò non deve stupire che nelle opere di Eastwood, e in particolare in questa, si possano riscontrare echi fordiani. Per alcuni “Gran Torino” è soltanto un bel film, per altri addirittura un film minore, per altri ancora, invece, un capolavoro. A modesto parere di chi scrive, è un film ironico e drammatico allo stesso tempo, dominato dalla presenza scenica di Eastwood (fantastico quando pronuncia la frase “Avete da accendere?”), il quale riesce nell’impresa di autocitarsi senza ripetersi (il prete e i parenti che pensano solamente all’eredità c’erano già in “Million Dollar Baby”), che racconta una storia semplice e lineare, crepuscolare e struggente, che arriva dritta al cuore dello spettatore e che culmina in un finale inaspettato e commovente. Se fosse stato l’ultimo lavoro di Clint come attore e regista, sarebbe stato un congedo in grande stile. “Gran Torino”, gran Eastwood, gran film.

VOTO: 8/10

 

Nel segno di Murakami

La copertina di "Nel segno della pecora"

La copertina di “Nel segno della pecora”

Lo diciamo subito, così ci togliamo il pensiero: “Nel segno della pecora” non è il miglior Murakami che si possa immaginare. Adesso che abbiamo affermato che il libro in questione non rappresenta l’apice della carriera dell’autore giapponese, possiamo aggiungere che non si tratta nemmeno di un lavoro minore liquidabile in poche parole. A nostro modesto parere, infatti, pur non essendo un capolavoro, “Nel segno della pecora” è un romanzo intrigante, che riesce a conquistare l’attenzione del lettore grazie a un intreccio originale e ben congegnato. Haruki Murakami è uno dei più brillanti e arguti narratori contemporanei, tanto da essere capace di rivaleggiare con i maestri del passato. La sua firma è sinonimo di qualità. La pubblicazione di “Nel segno della pecora” risale al 1982. Da allora Murakami ha sfornato opere meravigliose come “Norwegian Wood”, “1Q84” e “Kafka sulla spiaggia”, che ne hanno decretato la grandezza. “Nel segno della pecora” è incentrato su un uomo che vive a Tokyo e che svolge la professione di agente pubblicitario. Il protagonista di questa detective story sui generis non ha nessuna particolare qualità e conduce una vita talmente ordinaria da essere monotona e ripetitiva. Non conosciamo il suo nome (l’autore non lo svela mai, forse per renderlo ancora più anonimo), ma sappiamo che è nato il 24 dicembre 1948, che è sposato con una donna che lo tradisce con un suo amico, che ha cinquecento dischi, un gatto, tre vestiti, sei cravatte e tutti i libri che compongono “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, che fuma quaranta sigarette al giorno, che gli piace bere la birra (d’estate) e il whisky (d’inverno), che due sere su tre va al bar per mangiare omelette e sandwich, che rammenta “chi è l’assassino di ogni romanzo di Ellery Queen” e, infine, che ha una bassa considerazione di se stesso, al punto da ritenersi una persona noiosa e mediocre. Il suo matrimonio va in pezzi, la moglie gli comunica di volere il divorzio, e lui le risponde che “tutto sommato, è un problema tuo”. Dopo essere stato lasciato dalla sua compagna, rimane solo come un cane (la solitudine è uno dei temi ricorrenti nelle opere di Murakami), finché non si imbatte in tre fotografie in bianco e nero che ritraggono un paio di orecchie femminili talmente belle e affascinanti da stregarlo all’istante. Ammaliato da quella magnifica visione, contatta il fotografo che ha scattato quelle foto e tramite quest’ultimo ottiene il nome e il numero di telefono della ragazza a cui appartengono le orecchie che lo hanno incantato.

Haruki Murakami

Haruki Murakami

Dopo varie chiamate senza risposta, riesce a parlarle e ad invitarla ad uscire con lui: mentre cenano in un elegante ristorante francese, finisce che si innamorano l’uno dell’altra. Per delle foto che gli regalano un raggio di luce nella sua grigia e banale esistenza, ce n’è però un’altra che potrebbe farlo precipitare nelle tenebre più oscure: quella in cui è raffigurato un gregge di pecore che pascola vicino a un bosco di betulle, che lui ha inserito in una newsletter. Una foto, questa, all’apparenza insignificante, mandatagli, mediante lettera, da un suo vecchio amico, “Il Sorcio”, che suscita l’interesse di uno strano e misterioso individuo, il quale lavora per un pezzo grosso della politica, “Il Maestro”, esponente dell’estrema destra, che lo incarica di trovare una pecora che compare in quell’istantanea. Per scovarla ha un mese di tempo: se dovesse fallire il compito assegnatogli, per lui sarà la fine. Non appena il protagonista si improvvisa detective per tentare di rintracciare una pecora che si distingue dalle altre per una macchia a forma di stella sulla schiena, il libro, dopo un inizio non troppo avvincente, ingrana la marcia giusta e diventa sempre più convincente con il passare delle pagine. Quando parte la ricerca, Murakami libera la sua penna e la scrittura scorre fluida come l’acqua di un fiume in piena: le parole del romanziere nipponico fluiscono con estrema naturalezza e il racconto, intriso di malinconia per il passato e attraversato da un umorismo raffinato e sottile, ne trae giovamento. L’autore costruisce un meccanismo singolare e coinvolgente, insolito e trascinante, che induce il lettore a porsi delle domande (perché bisogna trovare quella pecora a tutti i costi? Cos’ha di tanto speciale? Chi è veramente “Il Maestro”?) e ad identificarsi con il protagonista, che si ritrova suo malgrado a dover vestire i panni dell’investigatore, attorno al quale gravitano una serie di personaggi stravaganti che portano con sé un tocco di follia e originalità. Quando, come in questo caso, si impernia una storia su un qualcosa di eccentrico e inspiegabile, il rischio maggiore che si corre è quello di rovinare tutto nel momento in cui si devono chiarire i punti oscuri contenuti nella vicenda ma Murakami, grazie alla sua classe sopraffina, evita quel pericolo e realizza un finale che non delude affatto.

VOTO: 7/10

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