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Madre e figlia

La locandina di "Voglia di tenerezza"

La locandina di “Voglia di tenerezza”

Dopo la morte del marito, Rudyard (Albert Brooks), Aurora Greenway (Shirley MacLaine) rimane sola con la figlia, la piccola Emma (Jennifer Josey da bambina, Debra Winger da adulta), che una volta diventata grande decide di sposare un professore universitario, Flap Horton (Jeff Daniels), mentre sua madre intreccia una relazione sentimentale con un suo vicino di casa, Garrett Breedlove (Jack Nicholson, che ottenne il ruolo dopo i rifiuti di Burt Reynolds, James Garner, Harrison Ford e Paul Newman), un ex astronauta che ha l’abitudine di correre dietro alle donne più giovani di lui. Se vi dicessimo che James L. Brooks, nel 1984, con questo film lacrimevole (tratto dall’omonimo romanzo di Larry McMurtry) soffiò l’Oscar per la Miglior Regia a un certo Ingmar Bergman, che in quell’anno era candidato nella suddetta categoria con “Fanny e Alexander”, uno dei film più belli del maestro svedese, ci credereste? Eppure andò proprio così. I giurati dell’Academy, incredibilmente, preferirono assegnare la statuetta per la Miglior Regia al discreto e nulla più Brooks invece che all’immenso Bergman, al cospetto del quale il cineasta americano diventa piccolo come un moscerino. Questo per dire che aveva ragione quel tale che diceva che “i premi sono come le emorroidi, prima o poi arrivano a tutti”. Oltre a quello per la Miglior Regia, “Voglia di tenerezza” vinse altri quattro Oscar: Miglior Film, Miglior Attrice Protagonista (Shirley MacLaine), Miglior Attore Non Protagonista (Jack Nicholson) e Miglior Sceneggiatura Non Originale (James L. Brooks). Un trionfo, insomma, non solo alla notte degli Oscar ma anche al botteghino, francamente esagerato, almeno secondo il modesto parere di chi scrive. Ci vuole dunque così poco per conquistare l‘apprezzamento dei membri dell’Academy e del pubblico? Basta confezionare uno spettacolo di centotrentadue minuti in cui, furbescamente, i sorrisi si alternano alle lacrime e viceversa?

Debra Winger e Shirley MacLaine

Debra Winger e Shirley MacLaine

In questo film non manca niente: lutti (astutamente piazzati all’inizio e alla fine della pellicola), scenate, litigate, urla, tenerezze, corna, pianti e, soprattutto, malattie. Verso la conclusione, infatti, uno dei personaggi (non diciamo quale, ma coloro che hanno visto il film sanno benissimo di chi stiamo parlando) scopre di avere il cancro, e in un amen si passa dalla commedia al dramma. Certo, non si può negare che la parte finale sia commovente, solo chi ha un cuore di pietra non si commuoverebbe di fronte alle scene ospedaliere, ma c’è il forte sospetto che il film sia stato studiato a tavolino, ovvero che sia stato concepito e realizzato con la testa e non con il cuore, come se il regista-sceneggiatore non si fosse fatto nessuno scrupolo ad usare tutti i mezzi a sua disposizione per far scattare le lacrime. E’ innegabile che James L. Brooks abbia raggiunto il suo obiettivo, ma rimane l’impressione di un film artificioso e poco sincero. Comunque sia, la seconda parte è sicuramente più interessante della prima: i problemi coniugali di Emma e Flap e l’avventura amorosa di Aurora con Garrett, infatti, non appassionano più di tanto. La regia è corretta ma senza voli, la colonna sonora (di Michael Gore) ruffiana, gli attori fin troppo bravi (nel cast ci sono anche John Lithgow, che per la sua interpretazione venne nominato all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista, e Danny DeVito). Lo stesso Brooks, pur non essendo un genio, ha fatto di meglio (“Dentro la notizia”, “Qualcosa è cambiato”). L’ottima Debra Winger si dovette accontentare della nomination all’Oscar come Miglior Attrice Protagonista, ma forse la statuetta l’avrebbe meritata di più della MacLaine.

VOTO: 6/10

Philippe e Driss

La locandina di "Quasi amici"

La locandina di “Quasi amici”

Se fosse un film americano, probabilmente “Quasi amici” sarebbe premiato con una pioggia di Oscar. E non perché sia un capolavoro, ma perché la storia (vera) narrata da Eric Toledano e Olivier Nakache ha tutto quello che serve per conquistare i giurati dell’Academy. I protagonisti sono due uomini, uno bianco e ricco sfondato, Philippe, paralizzato dal collo in giù in seguito a un incidente con il parapendio, l’altro nero e povero in canna, Driss, che tira avanti grazie al sussidio di disoccupazione, i quali finiscono per diventare amici nonostante le profonde differenze che li contraddistinguono. I due, infatti, sono diversi come il giorno e la notte: Philippe è appassionato di arte e ascolta la musica classica, mentre Driss fuma i cannoni e ama il funk. Il primo adora Vivaldi e Bach, il secondo i Kool & the Gang e gli Earth, Wind & Fire. Il destino vuole che Driss diventi il badante di Philippe e che quest’ultimo riacquisti la voglia di vivere proprio grazie al suo nuovo amico, il quale, sebbene si trovi in gravi difficoltà economiche, prende la vita con leggerezza ed entusiasmo. Il film in Francia ha incassato uno sproposito, e anche in Italia è andato molto bene al botteghino. Ci si chiede, però, che cosa ci abbia trovato di bello il pubblico in una pellicola di livello medio-basso come questa. Solo perché mischia, neanche tanto bene, risate e commozione? Se non ci si chiama Charles Spencer Chaplin, mescolare ironia e patetismo è assai difficile, e ai modesti Toledano e Nakache la cosa è riuscita in modo appena dignitoso. Certo, ai due registi bisogna riconoscere di avere avuto il coraggio di raccontare una vicenda tragica con un tono semiserio, ma il problema è che la loro tragicommedia risulta troppo sbilanciata verso un umorismo grossolano. Di fronte a battute di bassa lega come “niente cioccolato per l’handicappato” si rimane francamente perplessi, per non dire sconcertati, e si fa veramente fatica a capire come sia possibile che alcuni le trovino divertenti. La regia non regala grandi sussulti, e la sceneggiatura (di Toledano e Nakache), oltre a proporre una serie di personaggi secondari che hanno lo spessore della carta velina (come la figlia di Philippe, Elisa, e il di lei fidanzato), fa di Driss una specie di Mary Poppins che risolve i problemi degli altri con una facilità disarmante. “Quasi amici” vorrebbe essere un inno all’amicizia, ma in cento e passa anni di cinema di inni all’amicizia se ne sono visti tanti e quasi tutti sono migliori di questo. Film come “Dersu Uzala” di Akira Kurosawa, “Jules e Jim” di François Truffaut e “Un mercoledì da leoni” di John Milius, “Quasi amici” non li vede nemmeno con il binocolo. Meno male che nei panni di Philippe e Driss ci sono rispettivamente François Cluzet e Omar Sy, che con le loro ottime interpretazioni riescono a infondere brio al film. Se il risultato finale arriva alla sufficienza, il merito è tutto loro.

VOTO: 6/10

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